Tutto il necessario per il fumo era lì pronto: il contenitore del tabacco, quello con le braci, il recipiente per le ceneri e ovviamente il kiseru. Ma l'uomo non toccava nulla: aspettava. Entrò il padrone di casa e gli sorrise, si sedette di fronte a lui, gli rivolse parole di saluto. Scambiarono frasi gentili. Intanto il padrone aveva afferrato il kiseru e lo strofinava con una morbida pezzuola di carta. Finito di pulirlo, aggiunse: "Vuoi per favore fumare un po' di tabacco?" L'ospite cortesemente rifiutò: "Non oserei, è il padrone di casa che dovrebbe fumare per primo." Questi cortesemente insistette e l'ospite cortesemente rifiutò, così un'altra volta e un'altra ancora. Poi finalmente l'ospite si "arrese" e, con gran soddisfazione di entrambi, allungò le dita ad afferrare una piccola quantità di kozami, quel tabacco tagliato finissimo la cui grande qualità non trascurò di rimarcare. Rigirandolo fra le dita ne fece una pallina che depositò nel minuscolo fornello, accendendola poi con un frammento di brace e aspirando piano una, due, tre volte. Il padrone osservava compiaciuto l'ospite che, fra una boccata e l'altra, esprimeva la sua soddisfazione per la gradevolezza del fumo. Dopo due cariche e molti apprezzamenti anche per la qualità estetica del kiseru, l'ospite lo svuotò depositando la cenere nel recipiente, poi si mise a strofinarlo con una nuova pezzuola mentre Il padrone protestava: "No, lascialo pure lì come si trova!" ma l'ospite già l'aveva rimesso pulito al suo posto assieme agli altri oggetti necessari a fumare...
Nel Giappone del Settecento il tabacco era uno di quei generi non strettamente necessari ai quali però in pochi rinunciavano. I membri delle classi elevate lo proiettavano in un sistema di alti valori simbolici legando il suo consumo alle regole di un preciso cerimoniale proprio come da secoli si faceva con il té e il saké: così quella cultura nobile e antica aveva incorporato la strana sostanza venuta da fuori per farne una piacevole e accettata esperienza di quei luoghi. Era l'ultimo arrivato, il tabacco: i suoi primi sporadici contatti con l'arcipelago risalivano probabilmente agli ultimi decenni del Cinquecento, ma solo col secolo successivo l'erba s'era stabilmente insediata nelle abitudini locali. Fra quelle abitudini, da almeno quattrocento anni, vi era un'altra erba ugualmente affascinante e stimolante che però non andava bruciata in una pipa: il té.
Chi aveva "inventato" il té? Una tradizione rimanda addirittura a Shen Nung, vissuto (sembra) circa 5000 anni fa. Mitico imperatore cinese, considerato padre sia dell'agricoltura che della medicina del suo Paese, inventore tra l'altro dell'agopuntura, nella sua lunga vita avrebbe assaggiato centinaia di erbe per capire quali fossero utili e quali velenose. Un giorno dell'anno 2737 prima di Cristo (in questo la leggenda è molto precisa!) lui e il suo seguito erano accampati in un bosco, dell'acqua stava bollendo in un pentolone: vi caddero foglie da un alberello, e Sheng Nung assaggiò il risultato. Era la prima infusione di té.
Se dalla leggenda passiamo alle fonti scritte la datazione si avvicina ai nostri giorni, ma nemmeno troppo. Nella Biografia di Wei Zhao contenuta nella Storia dei Tre Regni (terzo secolo dopo Cristo) si legge: "... qualcuno segretamente gli diede del té al posto del vino". Nel terzo secolo, insomma, la bevanda chiamata "cha" (ossia il té) era abbastanza nota in Cina da menzionarla senza bisogno di spiegazioni, ed era considerata un'alternativa al vino; dunque la sua introduzione è senz'altro più antica. In quanto agli alberelli di Camellia Sinensis, chissà da quali epoche crescevano selvatici in quei luoghi.
Anche il tabacco era già noto nel terzo secolo, ma in un altro continente: in mancanza di testimonianze scritte lo attestano i ritrovamenti di pipe nei monumenti funerari americani.
Col sesto secolo inizia in Cina la dinastia Tang ed è allora (618 - 906) che il té diventa bevanda alla moda e si passa dalla ricerca e raccolta degli alberelli selvatici alla loro coltivazione.
Di quel tempo è anche il bassorilievo ritrovato a Palenque, Messico, nel quale un sacerdote Maya regge fra le labbra un grosso tubo dal quale escono lingue di fumo.
Sempre nel sesto secolo il té arriva in Giappone: a portarlo sono i monaci buddisti, che di quelle foglie apprezzano la capacità di prolungare lo stato di veglia durante le meditazioni; ma pochi, al di fuori degli ambienti religiosi, si accorgono della novità. Intanto in Cina (780) esce addirittura un libro dedicato al té: l'autore è Lu Yu, dotto anacoreta buddista che codifica tutti i metodi conosciuti di coltivazione e preparazione di un prodotto ormai maturo e ben affermato attorno alla cui preparazione e consumo i monaci Zen stanno creando elaborati rituali. Così, quando nel 1191 il monaco buddista Eisai torna in Giappone dopo un soggiorno di studio in Cina, vi porta assieme alle scritture Zen i semi e i riti del té. Fu allora che la bevanda dilagò in Giappone. Anche i rituali legati al suo consumo si diffusero dagli ambiti strettamente religiosi a quelli più ampi della sociale convivenza, prendendo strade diverse e anche contradditorie; fino a quando, a fine Cinquecento, non furono codificati in maniera definitiva.
La cerimonia del té, come può capitare di viverla oggi, non è poi così diversa da quella di allora. Niente di strano dopotutto: gli invitati non sono più di cinque; li si coinvolge in un evento più o meno lungo (con un buon pasto, la semplice degustazione di un dolce o situazioni intermedie; con una o più pause in giardino, momenti di conversazione e altro) nel quale, a un certo punto, il té è preparato e servito dal padrone di casa o da chi è da lui incaricato. Cha no yu la chiamano in Giappone, ossia semplicemente "acqua calda per il té"; ma dove sta allora l'eccezionalità della cerimonia? La prima cosa speciale è proprio il té, in una versione giunta direttamente dalla Cina dell'anno Mille: polverizzato, di un verde squillante, da mescolare intimamente all'acqua, preparando dunque una sospensione e non un'infusione come ora siamo abituati a fare. La bevanda che se ne ricava è colorata, intensa, emozionante. La seconda cosa speciale sono le regole: semplici ma nell'insieme complesse, minuziose, sorprendenti, il loro apprendimento richiede anni e anni di studio. Regole che evocano ancor oggi lo spirito dei monasteri Zen e abbracciano tutti ma propri tutti gli aspetti della cerimonia. Ricavata in casa o decentrata in giardino, la stanza da té è un ambiente molto ristretto e raccolto cui si accede da una porta piccola, ribassata: costretti a rannicchiarsi per passare, si è così indotti all'umiltà. All'interno nulla è per caso: solo pochi, sobri, simbolici, raffinati elementi decorativi, ispirati alla stagione e agli spogli ambienti contadini del passato; semplici e insieme curatissimi gli utensili da usare. Tutto quel che si dice e si fa durante l'intero evento (non soltanto nella fase cruciale, quando si prepara e si consuma il té) deve rispondere a norme precise: l'abbigliamento, la posizione del corpo (compresa quella delle dita!) l'espressione del volto, le parole da pronunciare, l'intonazione della voce hanno importanza fondamentale. E' un esercizio di autodisciplina: il flusso delle regole e la necessità di applicarle con spontaneità e naturalezza richiedono quella costante concentrazione che porta a un grande equilibrio, al distacco dalle miserie di tutti i giorni. La terza cosa speciale è il ruolo importante, insostituibile di chi prepara il té: sia esso il padrone di casa o la persona da lui incaricata, è il baricentro di tutto l'evento. L'officiante del rito.
Non si tratta, insomma, di una semplice tazzina di té, ma del convergere di un evento sociale, di un momento estetico, di una dimensione religiosa verso un unico fine. E il fine è quello di raggiungere quattro stati fondamentali e desiderati: armonia, rispetto, purezza, tranquillità...
Viene da pensare a Cristoforo Colombo: quando il 12 Ottobre 1492 approdò nelle "Indie sbagliate", tutto questo già avveniva in Giappone. Se per assurdo fosse invece arrivato alle vere Indie, forse al posto del tabacco avrebbe portato in Europa un altro genere di foglie.
Ma in America, che del tabacco era la patria, c'erano popoli che della sua combustione avevano fatto un rito al cospetto delle divinità. I pochi Europei che fra Sei e Settecento si trovarono a percorrere le Grandi Pianure del Nord ebbero l'onore di partecipare a cerimonie delle quali l'aromatica erba e il suo fumo erano il centro e la stessa ragion d'essere.
La pipa indiana da cerimonia, decorata secondo precise simbologie, si componeva di due parti entrambe sacre: la testa, ricavata da un blocco di pietra; il lungo tubo di legno. "Prima" e "dopo" queste restavano rigorosamente separate nelle loro custodie; solo in prossimità del rito si estraevano disponendole su un telo assieme al necessario per fumare; il tabacco era molto forte, a volte integrato con erbe dolci e profumate, cortecce e radici.
Per prima cosa l'officiante afferrava la testa con la mano sinistra e il tubo con la destra: sollevando entrambi verso l'alto chiedeva agli spiriti il permesso di unirli. Poi introduceva con delicatezza il tubo nel foro della testa, "dando così vita" alla pipa: se entrambe le parti erano sacre, la loro unione diventava una "creatura vivente". Un autentico altare. Il legame fra terra e cielo.
Ora l'officiante, tenendo la pipa per la testa con la mano sinistra e per il tubo con la destra, puntava quest'ultimo verso Est pronunciando parole ispirate: "L'Est è rosso grazie al Sole che sorge, e ci porta un nuovo giorno e un'altra occasione per imparare. Grazie, o Grande Spirito per ogni giorno che ci doni..." Lasciava cadere (verso la Madre Terra) un pizzico di miscela da fumo; un altro pizzico lo depositava nel fornello. Poi orientava il tubo verso Sud, verso Ovest, verso Nord, verso il basso, verso l'alto: ogni volta con un'invocazione, un tributo alla Madre Terra e un pizzico di carica nel fornello. Infine, sostenendo la pipa più in alto che poteva, si rivolgeva direttamente alla principale divinità: "O Grande Spirito, creatore di tutti noi, creatore di tutte le cose, dei quattro venti, di Madre Terra e di Padre Cielo, ti offriamo questa pipa." Un ultimo pizzico a terra, un altro pizzico per completare il caricamento e non restava che accendere, con la dovuta solennità. La pipa passava allora di mano in mano, in senso orario. Ognuno aspirava la sua dose di fumo, poi lentamente la espirava. Il fumo era il veicolo per portare in cielo le preghiere, le promesse, i pensieri; per stabilire un contatto fra il Grande Spirito e il suo popolo. Al suo turno, ognuno poteva recitare una preghiera o dire ciò che riteneva più opportuno. Chiuso il cerchio dei fumatori l'officiante, nel caso fosse rimasto del tabacco incombusto, finiva di fumarlo. Poi sollevava nuovamente la pipa ringraziando tutti gli spiriti, separava le due parti, le puliva e le riponeva.
Quando gli Europei appresero l'uso della pipa, questi suoi legami col trascendente furono quantomeno trascurati. Affascinata dai racconti dei viaggiatori l'Europa percepì solo l'eco di esotici riti, di altre civiltà più "naturali" nelle manifestazioni dell'animo. Anche questo, comunque, contribuì al fascino del tabacco nei decenni attorno al Seicento quando la nuova abitudine prese piede sia in Europa che in Oriente. Proprio allora, in Europa, pervenivano anche le prime forniture di té.
Oggetto di racconti vaghi e fantastici nonché di scarne corrispondenze di missionari (attorno al 1560) alla fine di quel secolo l'asiatica bevanda era forse arrivata in piccole quantità a Lisbona, in Francia Olanda e Paesi Baltici; ma ben pochi ci avevano fatto caso. Solo col Seicento le cose si misero in moto: il primo vero carico giunse via mare in Olanda nel 1610; intanto anche via terra, lungo le carovaniere della Via della Seta, il té filtrava verso l'Europa. Costosissimo e ambito, considerato dapprima un medicinale, fu poi il passatempo di gran moda nell'alta società olandese. L'eco delle specifiche cerimonie in Asia, il fascino dei raffinati servizi importati assieme al prodotto avevano fatto colpo: verso il 1666, a Le Hague, non c'era casa altolocata che non avesse la sua stanza da té.
Fu poi la volta dell'Inghilterra dove, nel 1657, si misero a offrire la "nuova medicina"... in una Coffee-House. Singolare fu l'esordio del té in quella che sarebbe poi diventata la sua "patria" d'Occidente: un esordio in sordina, una lotta accanita lungo tutto il Settecento con il caffé, già radicato nelle abitudini ma destinato a cedere in passo, mentre aumentavano le quantità importate da Oriente e man mano calavano i prezzi. Ma il vero trionfo della bevanda britannica per eccellenza risale all'Ottocento.
La cerimonia occidentale del té, il té delle signore, l'afternoon tea, iniziò a manifestarsi a Londra negli anni attorno al 1840 come spuntino del pomeriggio per non dover digiunare fino a cena: un piccolo ricevimento insomma, con panini imburrati, dolci, crostate e biscotti accompagnati ovviamente da una buona e fumante tazza di té. Ma la vera ragion d'essere dell'evento, che le signore celebravano ogni giorno in un'abitazione diversa, era il fatto di ritrovarsi piacevolmente in un ambiente loro familiare e loro riservato; agli uomini spettava affrontare il lavoro fuori casa, salvo andare poi a rilassarsi nei club. Regina della casa, la signora di buona famiglia fungeva da officiante: era lei (o persona da lei incaricata) a preparare e servire l'aromatica bevanda. Altre si occupavano di preparare caffè o cioccolata per chi non gradiva il té. Come cerimonia, era ben diversa, meno "spirituale" di quella prevista in Giappone, se pure connotata da una discreta ricerca di armonia. Il codice di comportamento richiesto alle partecipanti non discendeva da alte esotiche dottrine, ma rispondeva alle dettagliate norme dell'etichetta: quelle stesse che in modi diversi regolavano anche le riunioni fra fumatori.
Oggi le cose non stanno più come in passato: lasciati i valori simbolici e spirituali, il té è il té; il tabacco è il tabacco. Come capita anche ad altre sostanze, li vediamo semplicemente come piacevoli opzioni per i momenti di relax. Piacevoli e diverse, si direbbe: dell'una si gusta il fumo, dell'altra l'infuso; eppure le somiglianze ci sono. In ogni caso si tratta di foglie: più grandi quelle del tabacco, più piccole e aggraziate quelle del té; una volta colte sono soggette a cure, preparazioni, modalità di confezionamento che hanno parecchio in comune. La varietà offerta, se si cerca bene, è notevole in entrambi i casi. Che effetto farà, allora, unire le due opzioni, le due foglie?
Dipende. Se vogliamo far prevalere il tabacco, e semplicemente prenderci una dolce pausa fra una buona miscela e l'altra, nulla è meglio di un'ottima tazza di té, non importa quale té. Se invece cerchiamo qualcosa di più e ci aspettiamo un'emozione unica intensa e complessiva, dobbiamo armonizzare bene le due componenti del cocktail. Un tabacco morbido, con prevalenza di Virginia ad esempio, possiamo sposarlo a diverse varietà di té purché non troppo forti. Se invece nella pipa vogliamo qualcosa di più deciso, è allora necessario evitare infusi eccessivamente delicati: meglio un té denso, intenso, frutto di prolungata fermentazione. L'incontro fra i due sarà esplosivo, ma molto, molto interessante.
Anche perché c'è qualcos'altro che le due foglie potrebbero avere in comune. Qualcosa di difficile da definire, poco più di una semplice sensazione:
"Il té è meno logico (del caffè). Né promuove il sonno né stimola l'argomentazione: piuttosto induce un SENSO DI GENIALE BENESSERE..."
La frase è tratta da un libro sul té; ma non potrebbe essere anche un libro sul tabacco?