Todd Johnson: Stamattina prima di uscire di casa mi sono visto riflesso nel monitor spento del nostro televisore. È uno di quei grandi schermi al plasma che campeggia sulle pareti di molti salotti. Chissà quante altre volte avrò incrociato il mio sguardo col suo senza farci caso, stamattina però ne sono rimasto catturato. C’era la mia faccia, non c’era dubbio, lì su quella superficie riflettente, ma insieme a quella c’era anche tutta la mia storia.
Pete Prevost: Alla mattina davanti allo specchio del bagno, da anni ormai, provo la stessa piacevole sensazione. Dopo essermi lavato il viso, non appena le mie mani che tamponano l’acqua con l’asciugamano scoprono per gradi il volto, a partire dagli occhi, mi scappa un sorriso. È un sorriso al me stesso che sono diventato, come se ogni giorno rinnovassi il piacere di vedermi riflesso nel mio presente con tutto il bagaglio di chi sono stato.
T. Ho rivisto nel mio contorno il viso di mio padre un pomeriggio di trent’anni fa ormai. Io avrò avuto otto anni e lui era tornato a casa con un vecchio televisore rotto e me lo aveva regalato. Non avevamo grandi possibilità economiche all’epoca, anche se io in realtà non me ne rendevo conto. I miei giocattoli erano vecchie radio e suppellettili di ogni tipo che potevo disfare e ricostruire come meglio credevo. Infatti quel televisore rotto era stato il più bel regalo di sempre e credo che mio padre lo sapesse. Lo avevo smontato e studiato fino all’ultimo transistor e alla fine ero riuscito persino a rimontarlo e a farlo funzionare. Che soddisfazione. Mio padre era così orgoglioso che lo aveva messo nella mia camera da letto come premio, così io e mio fratello ci potevamo attaccare il nostro Atari quando volevamo.
P. Anche stamattina non ho resistito, quasi come un automatismo quando si è stagliato il mio mezzo busto di fronte a me, il mio labbro superiore si è alzato agli angoli portandosi appresso con grande soddisfazione quello inferiore e la testa si è reclinata leggermente verso sinistra, compiaciuta, anche per via di quello che ha elaborato nella notte. Non vedo l’ora di portarla davanti al tornio, lei che ieri sera non mi ha mollato un secondo prima di prendere sonno. Succede così, mi metto a letto pensando di spegnere corpo e cervello e invece quest’ultimo resta accesso. Sempre. Riflette, pensa, crea. So che il modo migliore per farlo riposare è prendere un pezzo di radica e farlo sfogare lì sopra. So che mi siederò alla mia postazione di lavoro e come per incanto nessun pensiero lo sfiorerà più. Ormai lo conosco. Mi conosco. Quando scrivevo la musica era più o meno lo stesso.
T. La passione per la meccanica me l’ha trasferita proprio mio padre. Il rumore dei motori è stata la musica con la quale sono cresciuto. Papà era il più grande esperto di Corvette del mondo. Io però ho sempre preferito macchine più vecchie. La mia prima auto è stata una Anglia del 1948. Me l’ero messa a posto come piaceva a me facendoci dei lavoretti niente male, e ci sono andato a scuola ogni mattina per ben tre anni prima di venderla. Ho avuto molte auto nella mia vita, se le conto tutte direi più o meno 30 in vent’anni che guido. Qualche anno fa ho dovuto vendere con mio grande dispiacere la mia Maserati Quattroporte, la macchina dei miei sogni. È stato un amore sofferto il nostro, ma alla fine è stato meglio così. Per entrambi. Lei adesso si farà portare in giro da qualcuno più fedele.
P. Belli i tempi delle tournèe. Suonare in giro e vivere di quello, il lavoro dei miei sogni per ben dieci anni. Qualche pelo bianco in meno sulla barba e qualche kilometro in più sulla macchina. Una bella fortuna aver incontrato un secondo lavoro dei sogni con le pipe, non ve lo nascondo. Del resto quando hai conosciuto il primo grande amore non sai se ce ne sarà un secondo e quando però questo arriva, arriva con lui anche tutta la sua inaspettata generosità.
T. La mia prima pipa l’ho fatta a diciotto anni e è stato amore a prima vista. Nella mia vita ci sono due grandi amori che porto avanti parallelamente più o meno dallo stesso periodo: le pipe e mia moglie Rachel. Quando ho chiesto la sua mano, perché qui al Sud si usa ancora così, è stato proprio il mio futuro suocero a dirmi di non abbandonare l’amore per le pipe perché avere la fortuna di poter fare un lavoro che si ama, che fra l’altro mi ha permesso di mantenermi gli studi, non è da tutti. “Non importa quanti soldi farai, importa che tu faccia quello per cui sei nato e per me è evidente che tu sia nato per fare le pipe”. Un grande uomo e una grande frase che mi ha incoraggiato non poco, lo devo ammettere. Rachel è con me dai banchi di scuola, così come la pipa. C’è una poesia di e.e. cummings che esprime bene questi due amori che mi accompagnano da sempre, il tuo cuore lo porto con me, quando dice:
Questo è il nostro segreto profondo
radice di tutte le radici
germoglio di tutti i germogli
e cielo dei cieli
di un albero chiamato vita,
che cresce più alto
di quanto l'anima spera,
e la mente nasconde.
Questa è la meraviglia che le stelle
separa.
Il tuo cuore lo porto con me,
lo porto nel mio.
P. Quando ho fatto la mia prima pipa mi sono fatto un sacco di domande sul mio passato e soprattutto sul mio futuro e quei punti interrogativi, come degli uncini, mi hanno agganciato senza che potessi oppormi a questo nuovo orizzonte da pipemaker. Ci sono voluti un paio d’anni prima che potessi dirmi orgoglioso di scrivere il mio nome sulle mie pipe, però poi è stato tutto molto chiaro. Le mie mani erano capaci di dare gioia alla gente non solo suonando degli strumenti, ma anche intagliando della radica. Niente di più gratificante. E poi a voi lo posso confessare, la vita del musicista quando arrivano dei figli non è precisamente una passeggiata.
T. Le pipe, come i figli, vanno create nella consapevolezza che un giorno si dovranno lasciar andare per la loro strada. Anche se si continuerà ad amarle e ad averne cura, la loro vita continuerà nelle mani di qualcun altro. Per me, lo posso dire, non è un lavoro quello del pipemaker, ma una vocazione. Vedo sempre più gente che se lo dimentica purtroppo, ma fare le pipe e essere un pipemaker sono due cose decisamente differenti. Se manca la passione e l’ispirazione, non serve granché la tecnica. Quella si può imparare. L’intuizione artistica, quella che ti prende quando sei seduto al tornio col tuo ciocco di radica, quello no, non si impara. O ce l’hai o non ce l’hai. C’è tanta mediocrità in giro, ho visto molti aspiranti pipemakers che si credono da subito dei geni della pipa, non sapendo che il lavoro per arrivare a dirsi dei fuoriclasse in questo settore è molto duro. Non sono molti i Gianni Rivera. Beh, qualcuno l’ho incontrato e proprio per questo ora fa parte della mia squadra.
P. Avrei potuto continuare a scrivere musica, direte voi, andando meno in giro, certo, ma volete mettere quanto ci si diverta a prendere come spartiti le venature di un ciocco di radica e a scriverci un’aria che le persone possano respirare e non solo sentire? La mia nuova band, chiamiamola così, con la quale preparo questi preziosi strumenti per il fumo lento poi è fantastica e ai fan che ci seguono assiduamente riserviamo sempre un trattamento particolare.
Vi racconto questo aneddoto poi finisco di prepararmi, che il lavoro mi aspetta. Un nostro cliente aveva acquistato due Calabash e in due differenti momenti il suo cane gliele aveva rubate e massacrate entrambe. Potete immaginare che dispiacere. Infatti ce le aveva mandate con la preghiera di fargliele tornare utilizzabili. In effetti, era stata un’impresa difficile, ma ce l’avevamo fatta. Però ci eravamo anche chiesti insieme alle sopravvissute cosa avremmo potuto spedire in dono al cane che aveva tanto apprezzato il nostro lavoro, anche se a modo suo. Così, in una delle tante sere in cui la mia testa non mi aveva fatto dormire, avevo pensato a un regalo speciale: un osso di radica con inciso il suo nome. Regalo molto apprezzato, dal cane e dal cliente. Non è mancata la foto del piccolo appassionato di pipe da masticare col suo nuovo e più consono compagno di denti. Ce l’abbiamo appesa in laboratorio. Anche lui fa parte del fan club in qualche modo.
T. Quanto può viaggiare la mente anche solo con un monitor spento di una tv appesa in salotto? Fenomenologia dello spirito di un pipemaker che incontra se stesso e l’assoluto una mattina prima di uscire di casa. Certo con Tiffany blue di Mark Rothko sarebbe stato differente, a parte il fatto che non mi ci sarei mai potuto specchiare, ma stamattina è andata così. Ho avuto la mia porzione di blue e di assoluto. Se lo racconto ai ragazzi appena arrivo in laboratorio finiscono di prendermi in giro l’anno prossimo. Ma anche questo fa parte del gioco.
Un ringraziamento particolare a Todd Johnson e Pete Prevost per il contributo dato alla realizzazione di questo articolo
Milano, gennaio 2016