Gli Spagnoli erano ormai raggiunti, dopo il lungo inseguimento. Un'ultima brusca manovra, e con frastuono di legni le due navi entrarono in contatto. Lancio di rampini, urla, clangore di lame, esplosioni... Poi silenzio e lamenti; ma agli assalitori, concluso lo scontro, non premeva altro che il carico. Fu allora che scoprirono quelle "cose" brune nella stiva: possibile che il vascello trasportasse solo escrementi secchi di pecora? Delusi, esasperati, indignati, i corsari inglesi misero tutto a fuoco e veleggiarono via. Era il 1579. Nella stessa epoca altri corsari, inglesi, olandesi, abbordarono altre navi cariche di quelle stesse "cose": o le incendiarono o le gettarono a mare. Ma che diavolo se ne facevano gli Spagnoli di tale robaccia?
Nelle aree tropicali d'America cresceva (fra tanti) un albero. Apparso in tempi remoti, aveva bacche lunghe dai 10 ai 15 centimetri di forma ovoidale come piccoli meloni, d'un colore giallastro verdognolo che a maturazione diventava bruno rossastro. Sotto la scorza la polpa era chiara, gelatinosa mucillaginosa, parecchio zuccherina, un poco acidula, a suo modo gustosa: ne andavano ghiotti parecchi animali della foresta. Più di tremila anni prima di Colombo i nativi conoscevano già bene sia l'albero che la polpa. E' plausibile che per molto tempo ci si fosse limitati ad assumerla estraendola dalla bacca appena colta; poi una serie di eventi casuali aveva fatto capire che, con la fermentazione, si poteva ottenerne una specie di birra. In quanto ai semi presenti all'interno, foggiati a mandorla e amarissimi, li si buttava via.
Scavando in alcuni siti fra Messico meridionale e Honduras attribuibili all'antico popolo degli Olmechi, gli archeologi hanno recuperato recipienti in terracotta per liquidi (vasi, bottiglie, ciotole, coppe) risalenti a un periodo fra il 1800 e il 1000 prima di Cristo. Su alcuni di essi si sono rilevate tracce d'un alcaloide, la teobromina, che riconduce direttamente all'albero dai semi amarissimi chiamato dagli Olmechi kakawa. Quei recipienti, dunque, accolsero un prodotto del kakawa; ma qui si fermano le certezze.
Non è chiaro se gli Olmechi si limitarono a raccogliere le bacche nella foresta pluviale o iniziarono a coltivare l'albero; soprattutto non è chiaro se quei recipienti servirono a produrre, conservare, consumare solo la birra o anche un altro prodotto. Si sa bene, invece, che a un certo punto una nuova serie di casualità e tentativi portò a mettere in primo piano gli amarissimi semi, che da allora non si gettarono più; ma questo accadde agli Olmechi o a qualcuno venuto dopo di loro? Da circa il 400 Avanti Cristo le loro tracce spariscono confondendosi con quelle di tanti altri popoli che in Mesoamerica, in secoli di guerre migrazioni invasioni, si sovrapposero e avvicendarono; quel poco o quel tanto che gli Olmechi già sapevano del cacao passò ad altri e altri ancora, evolvendosi e arricchendosi in modi e tempi che è difficile definire, finché dal mobilissimo caleidoscopio di quei popoli non emersero i Maya.
I Maya sapevano già tutto. Una ricca serie di reperti dimostra che, perlomeno nel loro "periodo classico" (dal terzo secolo dell'era cristiana) essi coltivavano gli alberi del cacao, ne estraevano i semi, li facevano fermentare, li essicavano, li tostavano, li trituravano ricavandone una specie di pasta che, con l'aggiunta di acqua calda parecchio lavoro e alcune spezie, dava luogo a qualcosa di denso grasso e schiumoso dalle caratteristiche molto particolari. Una bevanda rara, riservata a persone di rango, a momenti importanti della vita sociale: addirittura la chiamavano kakaw uhanal, cibo degli Dei. Le venivano attribuiti significati religiosi e virtù terapeutiche; così come accadeva, del resto, anche al fumo di certe foglie molto apprezzate in quei territori. Il tabacco, che più a Nord non aveva rivali, nella zona mediana del continente coesisteva pacificamente col cacao. Entrambi, nella cultura Maya, erano associati a una stessa divinità dalla pelle bruna che proteggeva anche i commercianti.
I semi secchi di cacao erano così preziosi che assunsero il ruolo di moneta: in quella "valuta" era espresso il costo di prodotti, oggetti, prestazioni; i semi, addirittura, venivano falsificati foggiando a mandorla altri meno nobili materiali. Portandoli sulle spalle, file di portatori percorrevano lunghe distanze diffondendo sempre più l'uso della densa bevanda, preparata in diverse varianti a seconda dei luoghi, dei gusti, degli usi cui era destinata: peperoncino, cannella, muschio, pepe, vaniglia i condimenti più in uso. Più tardi, quando un nuovo popolo - gli Aztechi - prese il sopravvento, venne aggiunta una certa quantità di farina di mais. La bevanda, che secondo alcune fonti si gustava alla fine dei banchetti fumando tabacco, prese il nome di chocolatl.
Colombo incontrò il cioccolato al suo quarto e ultimo viaggio, nel 1502, ma lo trovò sgradevole. Stessa impressione ebbe Cortés nel 1519; ma da uomo pratico qual era, considerando quanto era apprezzato alla Corte di Montezuma, prese in seria considerazione le potenzialità del prodotto. Il quale iniziò a diffondersi lentamente fra gli Spagnoli trapiantati in America, e ancor più lentamente nelle classi superiori in madrepatria. Al di fuori di quelle strette cerchie il cacao restò a lungo uno sconosciuto: così si spiegano anche le inconsulte reazioni di certi corsari inglesi e olandesi. Forse qualcosa non funzionava nel favoloso cibo degli Dei?
I semi del cacao erano (e sono) amarissimi: altrettanto amara, e anche un po' acidula, era la bevanda dei Maya e degli Aztechi; in più era grassa, molto grassa. Forse è esagerato il giudizio di Girolamo Benzoni che nella sua "Historia del mondo nuovo" (1565) la definisce "più beveraggio da porci che da huomini", ma è pur vero che quel vigoroso strumento cerimoniale e terapeutico era ben lontano dalla nostra cioccolata in tazza; come del resto il fortissimo tabacco usato nel Cinquecento dagli Indiani d'America era ben altra cosa rispetto alle calibrate miscele di oggi.
Non interessati al valore spirituale e simbolico della "pozione indica", gli Spagnoli la consideravano un semplice prodotto esotico difficile da avvicinare ai loro palati. Circa a metà Cinquecento furono probabilmente le monache d'un convento di Oaxaca, in Messico, a modificare per prime la ricetta sostituendo pepe e peperoncino con miele, cannella ma soprattutto con una "spezia" relativamente nuova per l'Europa prodotta da qualche decina d'anni nelle Indie americane: lo zucchero di canna. Poco più tardi la bevanda così addomesticata si gustò anche nei conventi, alla Corte, negli ambienti nobiliari della madrepatria.
Bevanda "difficile" nonostante le modifiche, il cioccolato; ma desiderata perché nuova, costosa, elitaria, provvista (si credeva) di interessanti virtù terapeutiche: in particolare, e c'era chi per questo la sconsigliava ai monaci, era accreditata come potente afrodisiaco; eppure papa Pio V, nel 1569, diede il permesso di consumarla (in quanto "liquido") anche nei giorni di digiuno. Così si diffuse, ma sempre lentamente. Prima in Spagna e territori spagnoli, poi in altri Paesi europei a partire da quelli cattolici e meridionali, portata da viaggiatori o da principesse spagnole andate in sposa a qualche regnante... A Firenze nel 1606, in Francia nel 1615, in Olanda nel 1621, in Belgio nel 1635, in Germania nel 1641, in Inghilterra attorno al 1650, negli USA nel 1712. Mentre si diffondeva si provò ad aromatizzarla con vaniglia, noce moscata, chiodi di garofano, pimento, anice, Rose di Alessandria, mandorle, nocciole... Riprendendo l'uso degli Aztechi si aggiunsero farine di vario genere per addensarla, ma soprattutto per diluire in una massa maggiore l'ineliminabile componente grassa del cacao. Anche il latte e addirittura il vino arrivarono a far parte della mistura. Così un po' per volta i palati europei si abituarono a quella strana, grassa, inebriante diavoleria venuta da lontano; man mano che si ridimensionavano gli aspetti terapeutici, restò e trionfò quello più sensuale legato alle emozioni del gusto. Dalle Corti, dagli ambienti dei nobili, l'uso si estese più genericamente alle persone facoltose; mentre nuove piantagioni di Cacao si sviluppavano in tutte le zone tropicali del mondo, il prezzo calava; ma non più di tanto.
A ben vedere, anche il tabacco aveva perso tutte le valenze spirituali e simboliche non appena sbarcato in Europa, anche ad esso erano state a lungo attribuite qualità farmacologiche, poi ridimensionate mentre si consolidava la piacevole abitudine di consumarlo. Anche per il tabacco il Cinquecento era stato un secolo d'attesa, d'incubazione; poi si era diffuso, ma velocemente e pressoché in tutti gli strati della società, a differenza del cioccolato. Il quale spesso si accompagnò al tabacco solo nei luoghi più o meno esclusivi nei quali entrambi erano di casa: oltre alle dimore private, eleganti locali pubblici come le Case del Caffé di Venezia o le Coffee house di Londra. Ma mentre l'uno, il tabacco, aveva presto precisato la sua identità l'altro, il cioccolato, stava ancora confusamente cercandola. Da circa la metà Seicento il "cibo degli dei" tentò di emanciparsi dallo stato liquido offrendosi qua e là sotto forma di sorbetti, dolci, pasticcini, barrette, confetti, pastiglie: offerta limitata e con più d'una pecca, ma cose del genere (a parte poche eccezioni) non s'erano mai viste. Dai primi decenni del Settecento alcune macchine iniziarono a semplificare i processi di lavorazione; l'approvvigionamento di cacao (e di zucchero) diventava sempre più facile. La produzione e il consumo crescevano più velocemente; dai continui progressi venivano ulteriori spinte ad accelerare; ma mancava ancora qualcosa. O meglio: c'era sempre qualcosa di troppo.
Nutriente, il cioccolato; ma quant'era indigesto. Diversi tentativi per migliorarlo riducendone il contenuto di grassi non avevano avuto successo. Quando nel 1815 aprì la sua piccola fabbrica ad Amsterdam, Casparus van Houten aveva bene in mente il problema: l'avevano tutti coloro che si occupavano di cacao. Il giovanissimo figlio Coenraad lo affiancò nella ricerca di nuove soluzioni, con un occhio a quei congegni che la Rivoluzione Industriale metteva a disposizione. Non fu questione d'un attimo, ma nel 1828 era pronta una potente pressa idraulica capace di "spremere" dai semi tostati una parte consistente della loro parte grassa, il "burro di cacao". Restava una massa solida facile da polverizzare dando luogo a una polvere di cacao più solubile nell'acqua o nel latte. Più tardi, proseguendo nelle ricerche, Coenraad van Houten mise a punto un trattamento del cacao in polvere con sali alcalini che arrotondava il gusto, toglieva acidità, scuriva il colore e incrementava ulteriormente la miscibilità.
Apparso con i primi tentativi di lavorazioni dei semi, addomesticato ma non del tutto dalle monache di Oaxaca, sgrassato e ricalibrato in quella piccola fabbrica di Amsterdam, finalmente il cioccolato aveva trovato la sua identità. Tra l'altro era possibile mescolare la polvere con lo zucchero e poi aggiungere una quantità controllata di burro di cacao per ottenere una pasta che, scaldata, si poteva colare negli stampi. Erano le prime vere tavolette, ma il cioccolato solido restava duro, da sgranocchiare. Poi nel 1879 lo svizzero Rudolphe Lindt inventò il concaggio. Si trattava, in breve, di mescolare a fondo e a lungo gli ingredienti mantenendoli alla giusta temperatura: tutto così si amalgamava in maniera perfetta, le particelle del prodotto si facevano minuscole, l'aroma si scatenava e il cioccolato, colato raffreddato e solidificato, si scioglieva in bocca.
Era un po' più d'un secolo fa. Da allora l'accelerazione è stata impressionante. Oggi il cioccolato è per tutti in un'infinita gamma di varietà offerte da grandi multinazionali come da raffinatissimi artigiani. Quando lo gustiamo dovremmo riservare un pensiero a quei Maya che trituravano i semi schiacciandoli col movimento regolare d'un sasso su una superficie di pietra, a quelle religiose che provarono e riprovarono le misture più adatte al nostro palato, a quei pionieri dell'Ottocento che reinventarono e perfezionarono il cibo che ora gli Dei ci invidiano. Arrivati alla fine del nostro banchetto possiamo sempre fare come gli Aztechi, quando aggiungendo emozioni a emozioni accostavano al cioccolato un buon tabacco.
È una sfida, questa, nella quale misurarsi con passione e concentrazione. Fra i tanti possibili abbinamenti ve ne proponiamo uno che accosta un cioccolato fondente di qualità a un tabacco “imparentato” con il cioccolato.
Chocolate Flake della Samuel Gawith’s è una English Mixture di Virginia, Burley e Latakia cipriota, aromatizzata ovviamente al cioccolato. Estratta dalla lattina, emana un ottimo aroma leggermente pungente (è il Latakia) con una nota di cacao. Le sottili “fette” marrone scuro con qualche striatura gialla hanno una fisicità umida che impegna il tatto mentre le si sbriciola o semplicemente le si ripiega per inserirle nel fornello. Una volta accesa, la miscela rivela il ricco sapore dei migliori Virginia cui si aggiunge, bene integrato, un gradevole sentore di cioccolato fondente: l’annuncio di ciò che avverrà una vota posata la pipa e afferrata la tavoletta.
Gran Cacao 82% è uno dei prodotti più noti della Slitti di Monsummano Terme: uno dei più interessanti produttori italiani di cioccolato. Un prodotto scuro, frutto di sapienti dosaggi, dal sapore amaro intenso capace di replicare moltiplicandola l’esperienza di Chocolate Flake. Quando riprenderemo in mano la pipa per la “seconda passata” (meglio aver prima bevuto un bicchier d’acqua per “resettare” il gusto) quel sentore di cioccolato fondente assommerà il ricordo del Gran Cacao 82% all’attesa del prossimo nuovo assaggio.