L’uomo appena entrato nel bar notò quel ragazzino tredicenne che giocava a calcetto: “Ma tu chi sei? – gli chiese – chi è tuo papà?” Avuta la risposta esclamò: “Dunque tuo nonno è quello che alleva i piccioni, e allora tu sei Picc. Picc come piccione!” Fu così che nel 1952 Luigi “Gigi” Radice ebbe il soprannome di tutta una vita; ma ancora non sapeva quanto il suo cognome fosse ancora più importante: conteneva un messaggio, quasi una premonizione.
A sedici anni, finite le scuole professionali, trovò lavoro come tornitore attrezzista in un’officina di metalli a Cucciago, il suo paese. Poi passò nella vicinissima Cantù in una fabbrica di mobili dove lavorava le parti tubolari metalliche e faceva il bronzista. La sera, nel seminterrato di casa, arrotondava con altri lavori: lucidatura, laccatura.
Cucciago è al confine nord-occidentale della Brianza, zona collinare a Nord di Milano. Terra di piccole imprese dove il titolare lavora spalla a spalla con i dipendenti, dove una nuova società può nascere da una chiacchierata al bar e il lavoro si trova attraverso relazioni, incontri fortuiti in piazza a un matrimonio o a un funerale.
Una sera del 1960 capitò a casa Radice il cugino Peppino Ascorti. Da qualche mese prestava la sua opera nello stesso laboratorio dove a lungo aveva lavorato un altro Ascorti, Renzo. Poi questi era morto e proprio al suo funerale c’era stato il “colloquio d’assunzione” di Peppino col signor Carlo. “Il signor Carlo ha bisogno di un altro lavorante, vieni!” - disse Peppino quella sera. Le condizioni erano buone, Gigi accettò. E fu così che quel provetto tornitore attrezzista e bronzista chiamato Radice, ormai ventunenne, abilissimo a trasformare i metalli ma digiuno di qualsiasi lavorazione del legno, si ritrovò di colpo alle prese col suo cognome: nel laboratorio di Carlo Scotti, a Cantù, si trasformavano in pipe gli abbozzi di radica arborea.
Carlo Scotti era un’autorità nel campo delle pipe. Non contento di venderle nel suo negozio di Chiasso aveva iniziato a produrle nel 1947 col preciso intento di farle così perfette da competere con la miglior tradizione internazionale. Dopo un esordio difficile, nel 1960 il marchio Castello era ben consolidato: il mercato americano richiedeva più pezzi di quanti non si riuscisse a produrne, per questo erano stati chiamati prima Peppino e poi Gigi Radice. Il quale non ci mise molto a passare dal metallo al legno; utilizzando l’esperienza di attrezzista sapeva anche modificare le semplici macchine del laboratorio e creare attrezzi studiati apposta per particolari fasi produttive. Il signor Carlo non interveniva direttamente nelle lavorazioni ma era il riferimento per tutte le scelte tecniche ed estetiche, alle quali si arrivava attraverso una elaborazione di gruppo fatta di tentativi, ipotesi diverse, ispirazioni improvvise. In un ambiente del genere, vera “università della pipa”, era giocoforza andar oltre la semplice eccellenza tecnica maturando una sensibilità, un feeling per questi inimitabili oggetti. Alla fine degli anni Sessanta Ascorti e Radice non avevano più nulla da imparare: la voglia di mettersi in proprio si faceva impellente.
Fu così che, nel 1968, i due cugini unirono le forze mettendo su un laboratorio a Cucciago; a Gianni Davoli, che aveva un negozio a Milano, fu affidata la distribuzione. Dopo il necessario rodaggio il marchio Caminetto iniziò a ingranare in Italia dilagando poi all’estero: Davoli chiedeva sempre più pipe, i due Maestri non accettavano deroghe alla qualità, l’armonia iniziale s’era guastata. Picc Radice cominciò a soffrirne, si mise a sognare la libertà, nel novembre del 1979 sbatté le ali e prese il volo.
Dopo una settimana era già all’opera nel seminterrato di casa dove da giovane aveva fatto i suoi lavori serali. Assemblò, modificò parti di recupero con l’aiuto di un amico meccanico fino a ottenere un minimo di macchinari. Costruì utensili, fece scorta di radica e altri materiali, a Gennaio 1980 si iscrisse come artigiano alla Camera di Commercio, iniziò le prime lavorazioni e a Giugno aveva già pipe pronte da consegnare al distributore; ma le attrezzature andavano migliorate e integrate. Il figlio minore Gianluca, tredicenne, gli dava una mano dopo l’orario scolastico tornendo il plexiglas per i bocchini. Anche il padre, falegname, si mise a sbozzare e a eseguire le prime fasi della rusticatura. La clientela si stava accorgendo delle pipe Radice, nel Giugno 1981 si aprì un promettente canale verso il mercato americano: era tempo di impiegare Gianluca a tempo pieno e presto anche Marzio, il figlio maggiore, si licenziò da un’azienda di arredamenti metallici. Nel laboratorio ormai attrezzato e ben sistemato, Gigi Radice aveva con sé gran parte della sua famiglia. Il lavoro c’era, la fase eroica stava terminando.
Ma torniamo a fine Gennaio 1980, quando a Cucciago arrivò una telefonata: Gino Menegazzi, che aveva rilevato il negozio milanese di Davoli, voleva curare la distribuzione per Radice. “Io le pipe ancora non le ho” protestò Radice. E Gino pazientò, fino a Giugno. Da allora i due agirono di conserva in una relazione d’affari che era anche scambio e confronto, complice e divertita amicizia. “Sono belle queste pipe - gli fece subito notare Gino - ma sembrano proprio le Caminetto!” “Logico: chi pensi che le facesse, le Caminetto?” ribatté Gigi. Ma sapeva che qualcosa andava fatto: anche all’esordio della società con Ascorti era stato necessario differenziarsi dalle Castello. Come allora la soluzione era evolversi: allungare o allargare, slanciare o intozzare anche di poco, agire sui particolari decorativi, sul trattamento delle superfici, sul bocchino, sull’imboccatura. Così, in breve tempo, sviluppò una sua linea originale, una sua riconoscibilità. Sul marchio non aveva mai avuto dubbi: che senso aveva cercar denominazioni di fantasia quando il suo cognome, Radice, era sinonimo di radica? In quanto all’espressione grafica del marchio furono molte le ipotesi e le prove che Gino invariabilmente gli bocciava, finché Gigi non arrivò a quei due pallini in linea intarsiati nel corpo del bocchino. Per la loro realizzazione si doveva lavorare il legno al tornio fino a farne un sottile cilindretto del giusto diametro, che andava poi “affettato” per ottenere i dischetti da inserire. Poi Gigi scoprì che gli stuzzicadenti di una marca che si ispira al mondo dei Samurai erano del legno e del diametro giusto! Da allora non c’è stato più bisogno di tornire. E Gino, se un cliente chiedeva di quei due pallini, spiegava: “È legno giapponese!
Menegazzi è morto nel 1990; nel 1997 Marzio e Gianluca sono passati al comando, ma il “pensionato” Gigi è ancora in prima linea e sforna pipe su pipe. Non si è mai fermata quell’evoluzione fatta di ricerca, di attenzione ai cambiamenti del mercato, della capacità di capire quando un errore ti può condurre a qualcosa di ancora più bello: uno sforzo creativo portato avanti da tutti i Radice. Alle “radici” della loro ispirazione c’è l’insegnamento di Carlo Scotti: le canoniche forme della scuola britannica unite alla gloriosa tradizione dell’artigianato italiano. L’evoluzione che ne è seguita ha portato a pipe dalle dimensioni spesso generose, in una gamma che va dagli esemplari strettamente classici a quelli che esprimono una maggiore creatività, ad altri nei quali la fantasia va al massimo.
Grande è la scelta delle finiture. Rind (scorza): rusticatura molto caratteristica, al naturale o color prugna. Silk Cut (taglio di seta): sabbiate chiare e nere. Underwood (sottobosco, inizialmente denominate Epoca) con le tipiche “colature di cera” profondamente scolpite a mano. Lisce scure dai colori rosso, marrone, piombo, nero. Rubino, Nut, Brown, Dark. Clear (chiare): lisce naturali. Clear F: lisce naturali stupendamente fiammate. Clear OP: lisce naturali a occhio di pernice.
Se l’attenzione ai dettagli è estrema, infinite sono le varianti: dagli esemplari giganti alle boccole di legni colorati, agli intarsi sul cannello, agli inserti di corno, di bosso, di trecce in argento o rame. Inimitabili le ghiere in argento cesellato a mano, sorprendente l’effetto-bambù ottenuto scolpendo la radica del cannello. Clamorose le pipe a doppio fornello (se ne ricorda una da tre fuochi) ottenute da un sol pezzo di radica, congegnate in modo da fumare due tabacchi diversi alternativamente o addirittura insieme. Curiosi i bastoni da passeggio che “inglobano” una pipa. Meno inusuali ma di incredibile fascino i pezzi unici free style della serie Collect. Le Zodiaco, solo su ordinazione, portano una targhetta circolare su cui è inciso il segno zodiacale del proprietario.
Le pipe Radice portano da sempre i due caratteristici pallini in linea sul bocchino: lateralmente per i modelli con filtro, sul lato superiore per quelli senza filtro. Un altro marchio (falce di luna inglobante una stella come nella bandiera turca) fu utilizzato fra la metà degli anni Ottanta e la metà degli anni Novanta del Novecento, ma solo per le Collect.
Alla fine degli Anni Novanta fu creata, per il mercato americano, una line di pipe curate all’olio con bocchino a doppio foro (Twin-Bore) ma dopo una ventina d’anni la produzione cessò. Dal 2008 in poi un piccolo numero stampigliato al termine della scritta “hand made in Italy” indica gli anni trascorsi da quello (1980) della prima pipa Radice. Altra recente innovazione: tutti gli interni dei fornelli vengono lasciati al naturale per permettere l’ottimale percezione del gusto del tabacco. I bocchini, realizzati a mano, sono stati a lungo di plexiglass ma negli ultimi anni è stato reintrodotto in alcuni modelli il materiale più classico per questa parte essenziale della pipa: l’ebanite, nelle versioni nera e Cumberland, variegata.
Difficile dire se questi gioielli danno più piacere a guardarli o a fumarli; qualcuno ha già iniziato a metterli in collezione.
Un ringraziamento particolare alla famiglia Radice per il contributo dato alla realizzazione di questo articolo
Milano, aprile 2017