Dunque non lo portò Colombo: il tabacco c'era già, in America. Non proprio dappertutto, ma quasi; di territorio in territorio, di popolo in popolo si può affermare che, da sole o addizionate ad altre sostanze, quelle foglie erano già usate in tutti i modi possibili. Chi le masticava, chi le fiutava, chi ne beveva l'infuso, chi le applicava a mo' d'impiastro a varie parti del corpo. Chi le fumava sotto forma di rozzi sigari; chi, per fumarla, disponeva di strumenti più o meno raffinati.
Il più antico sembra sia stato il semplice tubo, simile a quello del bassorilievo di Palenque: logica evoluzione, forse, dei "sigari" osservati dai primi Spagnoli. Altri "tubi" partivano semplici e poi si biforcavano a "Y" così da poter inserire un elemento terminale in ognuna delle narici; o a "T", e in questo caso ne usufruivano contemporaneamente due persone. Strumenti per fumare, questi, ma c'è chi pensa che quello a "Y" servisse a fiutare: inserita la dose di tabacco, uno infilava nelle narici le due estremità abbinate mentre un altro soffiava nell'estremità singola...
C'erano anche altri oggetti di svariate forme e proporzioni, ora emersi da scavi in Nordamerica, che hanno già gli elementi essenziali (cannello e fornello) di quella che oggi chiamiamo "pipa". "Pipa", comunque, potremmo chiamare anche i tubi di cui sopra se consideriamo che "tubo" è il significato del latino "pipa" al quale si possono collegare sia il termine italiano che quelli spagnolo francese tedesco e inglese.
L'uso che si faceva del tabacco era prevalentemente pubblico: magico, religioso, terapeutico. Ogni popolo aveva i suoi cerimoniali, ogni guaritore le sue iniziatiche procedure. Se ci soffermiamo sulle tribù delle Grandi Pianure nordamericane scopriamo che in caso di malattie la magica pianta e il suo fumo avevano un ruolo sia nella diagnosi che nella cura. Che i grandi calumet, necessari per qualsiasi accordo o decisione importante ma anche a implorare la benevolenza degli Spiriti, avevano pure la funzione di salvacondotto per chi ne era in possesso. Esistevano cave sacre nel cui ambito vigeva un rigido regime di tregua e membri di tribù nemiche lavoravano pacificamente fianco a fianco ad estrarre pezzi di "catlinite": una pietra sedimentaria metamorfica dalla quale si ricavavano i fornelli, prescelta per le sue caratteristiche di lavorabilità e resistenza al fuoco ma anche per quel suo splendido colore rosso che ben s'accordava alla carnagione di quelle genti. Genti guerriere, sempre in movimento al seguito delle grandi mandrie di bisonti; la vita nomade imponeva loro di detenere solo un ristretto numero di oggetti d'uso, possibilmente robusti. Fatti di pietra, osso, legno.
In altri territori, nella parte sudorientale del Nordamerica, le condizioni ambientali avevano portato alcune tribù a farsi stanziali praticando l'agricoltura. Comunità più complesse, dedite anche a forme d'artigianato fra le quali la lavorazione dell'argilla. E con l'argilla si può modellare ciò che si vuole: anche uno di quei tubi per fumare o addirittura una pipa come l'intendiamo noi. E' solo un'ipotesi, ma non così assurda e suffragata da alcuni ritrovamenti: può essere che inizialmente si producessero tubi dritti da fumo tipo quello di Palenque, e che poi qualche errore o incidente di cottura abbia portato a tubi "di scarto" venuti storti a una delle estremità i quali, guarda caso, consentivano una fumata migliore. E così, di miglioria in miglioria... Vero è che già ai tempi di Colombo questi popoli fumavano tabacco in pipe d'argilla dotate di fornello e cannello. Meno difficili da produrre rispetto a quelle in pietra o in osso, più piccole, adatte anche a un uso privato; fra gli europei capitati in quei luoghi e iniziati al fumo, più d'uno pensò bene di portarsene a casa qualcuna, non senza una bella provvista di foglie seccate.
Le portò anche Colombo, in Europa, al ritorno dalla sua prima spedizione. Ma nel 1493 quelle foglie secche di tabacco erano solo uno dei tanti souvenir delle Indie Occidentali. Anche quando agli inizi del Cinquecento i Portoghesi ne importarono i semi dal Brasile, quando nel 1518 il missionario spagnolo Romano Pane ne fece avere alcuni a Carlo V, imitato qualche tempo dopo da Hernán Cortés di ritorno dal Messico, quasi nessuno si accorse dell'avvenimento. Che il tabacco fosse "il tabacco" non era una realtà così evidente: per rendersene conto ci volle un'incubazione di quasi cent'anni, con un paio di accelerazioni legate alle vicende di due regine.
Il tabacco arrivò in punta di piedi. Il primo a parlare dello "strano" uso che se ne faceva nelle lontane Indie fu in un resoconto di viaggio del 1497 proprio Romano Pane, che papa Alessandro VI aveva aggregato alla seconda spedizione di Colombo. Altri lo avrebbero seguito, e intanto dai semi arrivati nei due regni iberici nascevano piante in qualche giardino: oggetto dell'interesse di pochi per i bei fiori e le supposte virtù curative. Fin dalla fine del Quattrocento, specie nei porti di Spagna e Portogallo, si era sì iniziata a vedere gente che fumava: marinai, commercianti, avventurieri provenienti dalle Americhe; ma quell'abitudine, rara anche perché quell'erba in Europa era ancora pressoché introvabile, era così insolita da destare curiosità e sconcerto più che voglia di provare. Capitava anche di peggio, nella Spagna della Santa Inquisizione: nel 1498 Rodrigo de Jerez, membro del primo equipaggio di Colombo, fumava tranquillamente in una via di Barcellona quando fu preso e condannato per stregoneria a dieci anni di prigione. Come non considerare diabolico un essere emanante fumo dalla bocca e dalle narici?
Fra i coltivatori del tabacco vi era anche un diplomatico e intellettuale portoghese, Damiao de Góis: uomo acuto e curioso, si era messo a sperimentarne le proprietà terapeutiche tanto decantate nelle Americhe; e gli capitò pure, nel 1560, di illustrarle a un altro diplomatico il quale, a Lisbona, rappresentava la Francia: Jean Nicot. Questi chiese e ottenne dei semi e li fece germogliare nel giardino dell'ambasciata. La regina di Francia, Caterina De Medici, soffriva di forti emicranie: perché non aiutarla? Nicot inviò a corte una polvere di foglie di tabacco con il caldo invito di farla provare alla regina. E la regina la provò. A questo punto entra in scena il monaco francese André Thévet, che aveva portato i semi dal Brasile qualche anno prima e già dal 1556 coltivava tabacco nel suo giardino di Angulême. Rivendicava l'onore d'essere stato il primo; ma mentre Nicot aveva messo in moto una concatenazione di eventi che faceva perno sulla regina di Francia, lui si era limitato ad ammirare i magnifici fiori di una pianta oltre che a scrivere in maniera un po' confusa su flora e fauna delle Americhe.
La regina si sentì meglio, e da allora fu un crescendo: non c'era naturalista o medico che non mettesse sotto la lente quel vegetale prodigioso, studiandone le caratteristiche botaniche, scrutandone gli sconfinati orizzonti terapeutici. Un'ubriacatura che durò perlomeno fino a metà Seicento. Intanto l'erba indiana si diffondeva un po' dappertutto, perfino negli orti vaticani, assumendo una miriade di nomi a seconda del luogo e delle circostanze della sua introduzione, salvo poi abbandonarli per la denominazione comune che sappiamo. Quella scientifica rese onore a Jean Nicot. Il rassicurante valore terapeutico della pianta la avvicinava anche a chi non aveva bisogno di cure: iniziò a diffondersi in Francia l'uso del tabacco da fiuto; in quanto al fumo, continuò a essere abitudine di pochi finché una nuova concatenazione d'eventi, anch'essa imperniata su una regina, non diede il via definitivo all'epoca della pipa.