Reggersi il mento con la mano destra, mentre il dito indice attraversa le labbra quasi a zittirle e nel contempo accarezza i baffi con piccoli colpetti verso il basso, è il gesto che precede la formulazione di un pensiero o la rielaborazione di qualcosa che gli è accaduto. Se sta ascoltando qualcuno, può anche dare la misura dell’interesse nei confronti del suo interlocutore o almeno di quanto gli sta raccontando. A questo di solito fa seguito una lisciata alla barba e un’aggiustata agli occhiali. Umberto è appena rientrato a casa. Porta un impermeabile blu e l’immancabile Borsalino nero in testa. Quelle tese, quanto tabacco hanno respirato insieme a lui? E mentre se lo toglie per appenderlo nell’attaccapanni che si trova nel corridoio vestito di libri che dal soggiorno porta alla sua biblioteca, avverte un profumo. È il profumo della memoria. Del resto anche lui la pensa come Kant “il tabacco rappresenta una specie di conversazione dell’uomo con se stesso che riempie il vuoto del tempo, anziché con la chiacchiera, con sensazioni sempre fresche e rapidamente fuggevoli, ma sempre rinnovate”. È un po’ che non si accende una pipa. Prima di mettersi in poltrona e concedersi una conversazione con se stesso, si toglie la giacca e si infila una gilet scuro sopra alla camicia. La cravatta la tiene. Gli piace e non gli dà fastidio. Mentre la giacca a volte sì.
"Ceci n’est pas une pipe", diceva Magritte in un suo celebre quadro per spiegare come l’immagine sia altro rispetto all’oggetto e per un semiologo la cosa è certamente intrigante. Per Umberto Eco la pipa è un appello all’interiorità e ha a che fare con la memoria. Ti permette di eliminare gli altri e di passeggiare con te stesso. È una specie di attivatore intellettuale. Sarà per via del fumo che è un po’ come la nebbia, lui che è nato ad Alessandria, una città dominata dalla nebbia, rispetto cui Londra è le Hawaii, come ama dire spesso. E pescare nei ricordi, quando le labbra reggono il bocchino e un filo di fumo sale verso l’alto a coprire almeno in parte la visuale, è piuttosto facile. Diventando vecchio si è reso conto di quanto la sua memoria si sia arricchita. La memoria è identità. La memoria è anima, un anziano ha più anima di un neonato, pensa. E invecchiando si recuperano sempre memorie antiche. Per esempio da poco ha scoperto che conosce il dialetto, lui che non l’ha mai parlato. Con gli anni è riaffiorato come se non avesse mai aspettato altro. La memoria, visti i tempi che viviamo dove tutto è affidato ai computer, va certamente allenata. Isaac Asimov, si ferma a riflettere un attimo Umberto, aveva profeticamente anticipato il problema della memoria in un racconto già negli anni Cinquanta, racconto dove si immagina che durante una guerra un blackout blocchi tutti i computer e l’unica persona al mondo che può sconfiggere i nemici è un uomo che sa ancora le tabelline a memoria. Molto verosimile, purtroppo. Mentre attraversa le stanze di casa foderate di volumi di ogni sorta, lo scrittore italiano sente che è arrivato il momento di concedersi il piacere di fare qualche esercizio di memoria con la sua “personal trainer” di radica. Così la prende, la carica e poi l’accende. Nella mano sinistra regge la bustina dei fiammiferi e con la destra fa scivolare sulla striscia scura orizzontale all’interno della confezione la capocchia di zolfo di quello appena staccato. E si accende un ricordo. Era il 1985 quando comincia a scrivere la sua rubrica settimanale sulla rivista italiana L’Espresso. E come la chiama? La bustina di Minerva e non in nome della dea della giustizia, ma bensì di quella bustina di fiammiferi che da sempre lo accompagna. Perché è proprio nel lembo interno, quando non ci sono pubblicità, che ci si appuntano idee, numeri di telefono, titoli di libri, spunti per nuovi scritti. Ne aveva appuntati molti negli anni. Anche quello che gli era capitato un giorno a New York, mentre stava passeggiando per le vie di Manhattan, quando vede venirgli incontro un viso familiare. Sapeva di conoscere quella faccia ma non riusciva a trovare nella sua memoria, per quanto infinita e allenata, nessun nome da associarle. Negli Stati Uniti per altro non ricordarsi il nome di un conoscente quando ci si ferma a salutarlo è forma di grande scortesia. Perciò Eco avanzava lentamente cercando di avere l’espressione il più accogliente possibile, per prepararsi al momento in cui l’altro lo avrebbe fermato probabilmente con un “Hei, Umberto, come va?” e lui per tutta risposta avrebbe dovuto sostenere una conversazione generica. Ancora qualche passo e altri sforzi per ricordare chi fosse, quando nel momento di incrocio della traiettoria sul marciapiede con quel viso, era comparso il nome: Anthony Quinn. Che sollievo scoprire che non c’era bisogno di salutarlo, perché in realtà non si conoscevano affatto. Umberto si era lasciato alle spalle Anthony Quinn e il vecchio concetto di familiarità al quale, da buon semiologo, ne aveva subito aggiunto uno nuovo. Aveva infatti riflettuto su come si possa avere una familiarità personale, ma anche una mediata dallo schermo. Certo Anthony Quinn gli piaceva e lui sì che lo conosceva attraverso i suoi film, però non si poteva dire il contrario. In quale film per esempio fuma anche lui la pipa? Mentre con forti boccate cerca di accendere la sua, l’allenamento alla memoria va avanti. Era ne I cannoni di Navarone dove Quinn era il Colonnello Andrea Stavros, certo. Bel film. Deve aver vinto anche un Oscar per gli effetti speciali. Accanto a quel ricordo si inserisce quello di Sean Connery, dove la familiarità mediata è diventata negli anni Ottanta, grazie a Il nome della rosa, una familiarità personale. Anche Sean Connery fuma la pipa in alcuni film. Assassinio sull’Orient Express, per dirne uno. E la memoria, complice la pipa, va a pescare quando è nata in lui l’idea del romanzo che l’ha reso celebre. Un romanzo che ormai odia. Come tutti i suoi romanzi, anche Il nome della Rosa è nato da un’immagine. In questo caso si tratta dell’immagine di un monaco che muore avvelenato mentre legge un libro. Ma a pensarci bene, ora che regge con una mano la pipa e con l’altra si liscia la barba, è un’immagine che arriva da molto lontano. Da alcune emozioni che aveva provato addirittura a sedici anni, durante un corso di esercizi spirituali in un monastero benedettino, dove per qualche giorno aveva passeggiato tra chiostri gotici e romanici. Un giorno era entrato in una biblioteca ombrosa e sul leggio aveva trovato gli “Acta sanctorum”. Sfogliando quell’opera aperta verticalmente con lame di luce che entravano dalle vetrate opache, aveva avuto un momento di inquietudine. Sì, è successo proprio allora che si è impadronita di lui l’immagine che molti anni dopo gli ha fatto scrivere Il nome della Rosa. Il fascino della biblioteca poi, come simbolo e realtà di una memoria collettiva che non va distrutta mai, rimane intatta tra quelle pagine pur ritenendolo lui il suo libro peggiore. Per proiettarsi sul futuro bisogna avere un’anima e la memoria è anima, si ripete. È passato del tempo da quando si è seduto in poltrona a fumare. Dà uno sguardo all’orologio e vede che è ora di tornare al lavoro. L’allenamento della memoria per oggi è finito. Prima di lasciare la sua pipa e dirigersi alla scrivania, si appunta sulla bustina dei fiammiferi una frase: “Caro nipote, coltiva la memoria.”
Quanta vita in una pipa.