In Csillag Utca, all’incrocio con Csapó Utca, viveva e lavorava Mihaly Seres. Una casetta a due piani come tante lì intorno; ma sul retro, invece della stalla e del porcile, c’erano il laboratorio, il forno con l’alto camino, l’essiccatoio, la baracca dove Mihaly e i suoi aiutanti facevano depositare l’argilla nelle casse, salendoci poi sopra con tutto il loro peso per lavorarla coi piedi fino alla giusta morbidezza.
La città di Debrecen era nota per gli arnesi da fumo: Mihaly ne era uno dei migliori artefici come lo era stato suo padre Lajos. In Csillag Utca erano state create le famose pipe Seres: nere, rosse, bianche, placcate, anellate… Derivate dal modello turco ma rispondenti a un preciso gusto locale. Un fornello piuttosto alto che una curva ad angolo acuto collegava a un cannello dotato di rinforzo là dove andava inserito lo stelo di legno. Pipe di lusso, a volte semplici ma impeccabili, a volte decorate con motivi geometrici a rilievo, arricchite da elementi in rame; a volte più inusuali nella forma e nelle finiture. L’epoca d’oro dei pipe-makers di Debrecen era stata nei decenni fra il Sette e l’Ottocento: ancora nel 1847 dieci milioni di pezzi, venduti in gran parte in Francia, Gran Bretagna, Nord America. Poi il declino. I tempi cambiavano, e non era solo la dilagante moda dei sigari né tanto meno il primo affacciarsi degli strumenti in radica. Quei capolavori d’artigianato tanto desiderati e richiesti dovevano ora vedersela con prodotti più industriali: meno raffinati, certo; ma ben più convenienti, più adatti a un mondo che aveva iniziato a correre. Fin dagli anni Sessanta dell’Ottocento tanti grandi artigiani locali della pipa avevano gettato la spugna, uno a uno. Resisteva Mihaly Seres. Erano gli anni Settanta quando capì di non farcela più a stare sul mercato, eppure il suo orgoglio di artefice gli impediva di cedere, di vendere tutto per quattro soldi e vivere di ricordi. Lo trovarono appeso a una trave del soffitto. Ma prima del tragico gesto aveva scavato una fossa in cortile, deponendovi poi con ordine la campionatura di tutta la sua produzione. Ritrovata casualmente anni fa, ora documenta la bravura di Mihaly e la grande tradizione di Debrecen.
Non sappiamo se eventi personali così drastici si verificarono, nella fase di passaggio fra Otto e Novecento, anche in altre parti d’Europa; ma giorni difficili arrivarono, con modalità e tempi diversi, per tutte le tipologie tradizionali di pipa in tutti i luoghi della loro produzione. Altro caso eclatante quello della città mineraria di Selmec, anch’essa in Ungheria. Selmec in ungherese, Schemnitz in tedesco ai tempi dell’impero austroungarico, infine Banska Stiavnica quando il territorio divenne cecoslovacco e poi slovacco. La produzione di pipe era iniziata già nel Seicento, anche qui su modelli turchi, ma la grande stagione coincise con l’Ottocento. Apparvero dagli anni Trenta gli strumenti tipici del luogo, con fornelli alti e faccettati ma anche cilindrici; colori, superfici traslucide, tanti motivi decorativi che si richiamavano a un classicismo di impronta viennese. Fu un crescendo quasi fino al termine del secolo: le pipe di Schemnitz si vendevano in tante parti d’Europa ma anche in Nord America, Asia, Sudafrica… Poi la decadenza: in tanti cessarono l’attività, molti stampi e attrezzature finirono nelle mani di un unico produttore che, di generazione in generazione, è sopravvissuto fino al 1954. Ma il mercato si era via via ridotto all’ambito locale.
E nel resto d’Europa? Il periodo d’oro s’era concluso, per gli Olandesi, già a metà Settecento; proseguirono poi a lungo perdendo sempre più mordente, come del resto gli artefici britannici delle pipe bianche in argilla: man mano che avanzava l’Ottocento, la richiesta di esemplari elaborati diminuiva a favore delle pipe corte molto più svelte da usare, prodotte in serie senza tanti fronzoli. E intanto il mercato si restringeva: prima per via dei sigari, poi per le sigarette. Partite in sordina già a metà Ottocento, fabbricate industrialmente dal 1880, si imposero alla grande dopo la prima guerra mondiale. Negli Anni Trenta del Novecento alcuni fabbricanti di pipe in argilla, di fronte al calo delle vendite, finirono addirittura per produrre oggetti d’uso vari nello stesso materiale, offrendo anche “pipette” per soffiarci le bolle di sapone, “pipazze” di varia foggia e lunghezza da sfasciare a fucilate nei baracconi dei luna-park. In Francia i maggiori produttori di pipe figurate, Fiolet e Gambier, chiusero negli Anni Venti del Novecento. Bonnard di Marsiglia, meno noto ma più tenace, si arrese solo nel 1955.
A fine Ottocento era ancora grande la produzione dei fornelli in porcellana e delle altre parti che, ad essi assemblate, concorrevano a costituire una pipa intera. Ma la qualità s’era abbassata: nella maggior parte dei casi la stessa illustrazione era meccanicamente riprodotta su tanti diversi fornelli; obbligati ad abbassare i prezzi si finì per ricorrere alle decalcomanie… Così il fascino delle splendide immagini colorate finì per esaurirsi, riducendo oggetti una volta raffinatissimi a semplici souvenir.
Per le pipe in schiuma, vanto di Vienna ma anche di Ruhla, Pest, Londra, Parigi il destino non fu molto diverso: grande produzione ma sempre meno curata fino ai primi del Novecento, quando ci furono problemi di estrazione nei pozzi di Eskişehir e i prezzi del materiale aumentarono mettendo in crisi molti fabbricanti. Con la prima guerra mondiale l’approvvigionamento quasi cessò; tornata la pace riprese, ma nulla era più come prima: un’epoca era finita, i gusti erano cambiati. Pochi artigiani intagliatori di Meerschaum restarono a proseguire la tradizione. Quando poi, nel 1961, il Governo turco stabilì di esportare non più materiale grezzo ma esclusivamente le pipe finite, solo qualcuno proseguì con il più aristocratico degli arnesi da fumo.
Tempi duri anche per le grandi quantità di pipe in legno intagliate nelle zone tedesche, da Ruhla ad Ulm. Man mano che correva la seconda metà dell’Ottocento divenne sempre più evidente che gli arnesi in radica erano superiori: tanti valenti artigiani, più o meno velocemente, dovettero rallentare o chiudere; ma non tutti. A Ruhla e Norimberga ad esempio, (seguendo l’esempio di Saint-Claude) ci fu chi cambiò semplicemente tipo di legno, importando dalle zone costiere del Mediterraneo quella radice che andava tanto di moda.
A ben pensarci era la cosa più naturale passare dalle altre essenze alla radica, vissuta da quelli di Saint-Claude come il legno che avevano sempre desiderato. Più o meno le stesse attrezzature, gli stessi utensili, le stesse abilità artigianali era necessari. Più impegnativo, viste le specifiche differenze fra materiali e tecniche di lavorazione, il passaggio dalla schiuma alla radica. Ma nemmeno così tanto; e ne valeva comunque la pena.
Tra l’altro, se con la riconversione altro legno-radica si passava da un materiale problematico per le pipe a un altro che sembrava fatto apposta, chi optava per la radica arrivando dalla schiuma lasciava un materiale top per uno altrettanto top. Anzi il più delle volte non lo lasciava affatto, almeno in una prima fase, limitandosi a offrire ai clienti la scelta fra due prestigiose opzioni. Conclusosi in qualche decennio il grande passaggio, il legno generico restò come alternativa economica, la schiuma come offerta di nicchia. La radica trionfò.
Così alcuni artigiani o piccole, grandi industrie, sposata la nuova tendenza, andarono avanti; altri, quelli dell’argilla e della porcellana, ebbero meno fortuna: non erano pronti a maneggiare il tornio, la fresa, il trapano, il platorello e tutti gli utensili a lama, abituati com’erano a impasti, a forme, a forni. La storia li superò.
Le prime pipe ricavate dalla portentosa radice presero a modello quanto già esisteva. Nessuno certo replicò le ingombranti gestekpfeifen, frutto dell’assemblaggio di tanti elementi. Ma è pur vero che gli artefici dell’Europa occidentale optarono per le pipe componibili “alla turca”, con testa in radica e bocchino in ebanite o altri materiali, abbandonando definitivamente le gloriose monoblocco degli antenati. I lunghi steli vennero in genere abbandonati, seguendo peraltro una tendenza già in corso. L’abbondanza di interventi decorativi restò per qualche tempo, come pure la creazione di pipe figurate. Poi si capì che la più bella decorazione, da valorizzare in ogni modo, era proprio quella offerta dalle naturali venature della radica. Ne sortirono forme sobrie, con abbellimenti ridotti; forse il cambio di tendenza influì anche su altri generi di pipe: nei cataloghi di meerschaum di fine Ottocento certi modelli differiscono da quelli in radica solo per il materiale.
Nei primi decenni del Novecento, in Europa, la forte concorrenza delle sigarette metteva in ginocchio quasi tutti i tipi di pipa; solo uno si espandeva: nella produzione, nelle preferenze dei fumatori. A fabbricarlo, realtà industriali riconvertite come quelle di Saint-Claude o costituite ex novo, come l’italiana Rossi a Molina di Barasso. Accanto ai colossi, una miriade di imprese minori dedite a lavorazioni più o meno raffinate.
Da metà Ottocento in poi, a Londra, le pipe avevano avuto un rilancio grazie anche all’arrivo di uno strumento più funzionale per accenderle, il fiammifero; le si creava nella tradizionale argilla, alla quale presto si affiancò la più nobile schiuma. Apparsi nei primi anni Sessanta, a fine secolo gli esemplari in radica era già i più richiesti, e sempre nuovi operatori si impegnavano a fabbricarli. Provenissero dalla schiuma o iniziassero direttamente con il nuovo materiale, gran parte di costoro non badava tanto ai numeri quanto alla qualità: stelle di quel fantastico inizio di Novecento, Charatan e Dunhill. Si posero in quegli anni le basi per la grande fama delle radiche londinesi. Scaturì allora dallo sforzo di tanti, dall’accanita concorrenza fra artefici, dall’ininterrotta corsa alla perfezione, la giusta atmosfera per precisare la personalità, la specificità delle nuove pipe. Per articolare una tassonomia sempre più esatta di forme, diversificate in base a elementi di estetica e di ergonomia del fumo. Buone pipe in radica si facevano in Francia, Germania e altre parti d’Europa; ma gli sguardi di tanti appassionati furono a lungo rivolti, come già qualche secolo prima, a Londra.
Mentre negli anni Sessanta dell’Ottocento le radiche partivano alla conquista del mondo, una nuova offerta - minore ma “naturale” - esordiva nello Stato americano del Missouri. Circa nel 1868 Henry Tibbe, falegname, prese spunto da uno strumento tradizionalmente usato da nativi e pionieri, ricavato da una pannocchia di granturco, migliorandolo e commercializzandolo. La modifica principale consisteva nel consolidare con scagliola (una sorta di gesso fine) l’interno del fornello limitandone così la porosità. Le altre attenevano all’estetica dell’oggetto. La Corncob pipe ebbe un certo successo grazie anche ai personaggi che ne fecero uso; conserva ancor oggi un discreto numero di cultori.
Un’altra pipa “naturale” era ben nota perlomeno dal Seicento nei territori del Sudafrica: autoctoni e coloni fumavano il tabacco dentro all’involucro disseccato di certe zucche chiamate “calabash”. Al tempo delle guerre dei Boeri (1880-1881 e 1899-1902) un nuovo “Henry Tibbe”, ma il suo vero nome era Henry Louis Blatter, provò a migliorare l’arnese tradizionale facendone qualcosa di più efficiente. In questo caso era necessario intervenire fin dall’inizio sulla parte vegetale: la zucca andava coltivata così da forzarla ad assumere la corretta forma a trombetta; poi, una volta svuotata e disseccata, le si applicava un fornello di schiuma nella parte più larga e un bocchino di ebanite in quella più stretta. Le calabash, dotate di camera d’espansione nel corpo della zucca (sotto al fornello in meerschaum) davano un fumo fresco e vellutato. Andarono a ruba fra i soldati britannici. Terminato il conflitto trovarono (e trovano tuttora) estimatori in tante parti del mondo. Senza però scalfire la supremazia dell’Erica Arborea.
Gli anni Venti e Trenta del Novecento furono di crescita per la radica: anche se il mondo del fumo guardava sempre più alle sigarette, a lasciare spazio erano gli altri generi di pipa in ritirata. Dopo la guerra le cose non andarono male, ma nemmeno benissimo: in quell’aria frizzante di ricostruzione, ancor più invasa dal fumo delle sigarette, si videro antiche ditte andare in difficoltà mentre altre partivano da zero. C’era voglia di cambiamento: chi restava troppo legato a un “classico” ormai obsoleto poteva contare solo sulla vecchia clientela; chi aveva coraggio agganciava le nuove generazioni di fumatori. Con gli anni Sessanta una rivoluzione che già covava in Danimarca iniziò a diffondersi negli altri Paesi, rispondendo magistralmente alla domanda di novità. Chi amava la pipa ma trovava polverosi i vecchi modelli impazzì di fronte alle proposte così innovative dei maestri del freehand. Prima Sixten Ivarsson poi tutti gli altri rimisero in moto quel mondo con idee audaci quanto rigorose e impeccabili. Era però il numero dei fumatori in genere a diminuire: gli anni Settanta videro in difficoltà un po’ tutti i produttori di pipe. Risultava evidente, ma forse non a tutti, che in un mercato ormai ristretto i parametri del passato non valevano più. La clientela rimasta era fatta solo di appassionati, e questi chiedevano alla pipa, al fumare la pipa, una gamma complessa di sensazioni, di emozioni. Da chi proponeva loro un nuovo arnese da fumo, questi interlocutori esigenti si aspettavano l’impossibile; ma forse no. In fondo chiedevano qualcosa che già aveva preteso in tante altre epoche la fascia più raffinata dei fumatori: non solo un oggetto che funzionasse bene ma qualcosa da esibire, da indossare, da guardare e toccare con immenso piacere. Solo chi ha capito e accettato questa realtà è rimasto in campo, in un mondo mai come oggi così connesso, nel quale le differenze si attenuano e si forma una sensibilità globale che unifica i mercati, mentre internet consente al fabbricante di Tokyo di vendere in Ungheria come in Jamaica, a quello di Milano di raggiungere clienti in tutto il mondo.
Potremmo a questo punto affermare che la nostra storia della pipa, partita dagli antichi americani e arrivata agli anni Duemila, è terminata. Ma è davvero terminata? Forse no. Ci sono tante altre cose da dire e approfondire. E poi le pipe vanno avanti. Certamente, un giorno, arriverà anche la tredicesima puntata!