Non basta caricare la pipa, accenderla e mettersi a fumare: c’è qualcos’altro, prima. Quando lo preleviamo a pizzichi premendolo delicatamente nel fornello, quel tabacco che sentiamo tra le dita deve darci le giuste sensazioni. Deve dirci che è pronto. Che è proprio come lo vogliamo noi.
Se quello della pipa è un rito, questo non può prescindere da quanto fa e prova il fumatore nel momento in cui apre la busta la lattina o un altro contenitore, affonda le dita nella miscela, gioca con il flake per piegarlo o frantumarlo, e se è il caso lascia al tabacco il tempo di acclimatarsi prima di iniziare la carica.
È una questione di umidità: il tabacco da pipa non deve averne né troppa né troppo poca. Ma il giusto grado non è uguale per tutti: l’ultima parola spetta al singolo fumatore. Solo una cosa è certa: a inumidirlo troppo si deteriora; lasciandolo all’aria, secca. Ci vuol qualcosa per contenerlo. Ma che cosa?
Gli antichi navigatori trasportavano le foglie attraverso l’oceano pressandole in casse di legno ben sigillate, o nei barili da rum con buon effetto aromatizzante; o avvolgendole in tele saturate di pece con risultati assai meno gradevoli per il fumatore. I recipienti in ceramica, di per sé ottimi, erano però un disastro in caso di tempesta.
Problemi di conservazione avevano anche i venditori di quella merce preziosa e costosa, così numerosi nella Londra del Seicento. Per loro il contenitore in ceramica era meno problematico che non su una nave; ma come consegnare ai clienti la quantità di tabacco desiderata? Il fatto che spesso lo si offrisse non sciolto ma in panetti (plug), elementi cilindrici (spun), “corde” (rope) non era semplicemente un modo per affinarlo: riducendo al minimo la superficie di contatto con l’aria si riusciva a limitare la dispersione dell’umidità. Sciolto o in frammenti più o meno grandi di plug, spun, rope, il tabacco veniva pesato e poi avvolto in un bel foglio di carta spessa, meglio se oleata. O inserito in una scatoletta fatta di sottili lamine di legno. Così lo riceveva il cliente a meno che non avesse portato da casa un suo recipiente di legno, pelle, metallo.
Nel Seicento l’antica tecnica cinese della silografia, arrivata dalla Cina circa nel 1400, s’era molto perfezionata. Dalle originarie applicazioni artistiche passò a quelle commerciali quando i produttori di alcuni generi di lusso iniziarono a utilizzarla in diverse parti d’Europa per pubblicizzare le loro attività. Fabbricanti di carta, farmacisti, venditori di tabacco (che spesso erano farmacisti) commissionarono matrici di legno per piccole stampe nelle quali c’erano l’insegna del negozio o altri simboli qualificanti, indicazioni sulla sua ubicazione, i prodotti. Se impressa su una superficie pari alla matrice, l’immagine era un messaggio da trasmettere ai potenziali clienti attraverso un biglietto figurato. Se riprodotta su un foglio più grande (lasciato in gran parte intonso) dava luogo a un incarto recante l’efficace indicazione del produttore. La più antica carta commerciale di un venditore di tabacco arrivata fino a noi con indicazione di data certa (una delle più antiche in assoluto) è quella (1669) di Thomas Lacy, con negozio in “Martins Lane by Cannon Street”, Londra. Da quell’epoca l’uso di incartare il tabacco in maniera personalizzata andò avanti perfezionandosi nella scelta della carta come nelle tecnologie di stampa. Qualche beneficio, ma non eccessivo, ne ebbe la conservazione del prodotto.
Sempre a Londra, circa nel 1764, la tabaccheria Fribourg & Treyer ad Haymarket offrì scatole metalliche anonime in tre diverse dimensioni (probabilmente di latta) a chi acquistava tabacco da fiuto. A partire dagli anni Ottanta la stessa tabaccheria passò a un recipiente cilindrico in lamina di piombo con etichetta di carta incollata attorno. L’etichetta, in caratteri calligrafici, portava il nome del negozio, l’ubicazione, l’indicazione del Principe di Galles quale illustre cliente e naturalmente il contenuto: tabacco da fiuto extra secco d’importazione. Certamente uno dei primissimi esempi di packaging: il prodotto aspettava il cliente già confezionato. E aveva una sua logica il fatto che proprio tabacco da fiuto fosse il contenuto di quel cilindro: macinato fino a farsi polvere impalpabile, guai se avesse preso umidità! Il metallo impediva all’umido di entrare. Ma allora, pensò qualcuno: potrebbe anche impedire all’umido di uscire! Non ci volle molto, e contenitori metallici furono adottati anche per il tabacco da pipa. È ragionevole pensare che già allora, pur con i limiti di una tecnologia ancora approssimativa, funzionassero abbastanza bene.
L’evoluzione di tali contenitori fu lunga. Prevalse la lamina stagnata di ferro: la latta. In un primo periodo era di qualità scadente, con saldature molto rozze e ruggine pronta a emergere: alle canoniche funzioni dell’etichetta si aggiunse così quella di sovrapporsi, nascondendolo, allo sgradevole prodotto dell’ossidazione. In parallelo, nonostante i loro limiti, andò avanti anche l’uso degli incarti.
Con la rivoluzione industriale di fine Settecento cambiò tutto: aumento della produzione, bacini commerciali più vasti, necessità di rendere riconoscibile fra tanti un prodotto non più sfuso ma già impacchettato. Il nome del produttore non bastava più: ci voleva un marchio, che parlasse attraverso un’immagine anche ai tanti analfabeti. Così l’Ottocento vide nelle etichette un crescendo di illustrazioni prima monocrome poi colorate. A renderle possibili e sempre meno costose fu l’uso della litografia, inventata a fine Settecento ed evoluta in cromolitografia (con successivi miglioramenti nella qualità) a partire dal 1837.
Attorno al 1780 erano apparsi contenitori metallici per tabacco da fiuto dipinti a mano: un lusso per pochi che proseguì abbastanza a lungo. A riprodurre meccanicamente le immagini su latta si iniziò a metà Ottocento con un metodo rozzo di stampa diretta; dieci anni dopo si applicavano, con esito migliore, illustrazioni a decalco. Nel 1875 apparve la soluzione “definitiva” di stampa indiretta, capace di qualità maggiore e costi ridotti: la lamina metallica riceveva l’immagine da un cilindro di gomma a sua volta inchiostrato dalla matrice.
Dalla seconda metà dell’Ottocento fu dunque un’esplosione di forme e colori sulle superfici dei contenitori metallici. Ogni marca cercava di sedurre il compratore “raccontandosi” con affascinanti denominazioni e illustrazioni. Non più, come nel Settecento, le insegne del negozio, le piantagioni, il piantatore nero che fuma… Ora la fantasia più sfrenata collegava il tabacco alle sue regioni di provenienza come ai luoghi più esotici, a personaggi e fatti reali o di fantasia, a elementi del quotidiano, ai più disparati oggetti e apparecchi dal più antico al più innovativo, alle glorie del passato come alle speranze suscitate dal progresso. In quanto alla forma di latte e lattine, prevalse quella a parallelepipedo stondato ma ce n’erano altre, diverse, a volte sorprendenti. Una gara di seduzione che si spinse avanti anche nel Novecento.
In parallelo proseguivano la corsa anche gli altri contenitori: veri e propri “pacchetti” di carta spessa o scatolette di cartone, ancora a metà Ottocento. Poi apparvero le confezioni a sacchetto, fatte di tela sottoposta a diversi trattamenti e accorgimenti, così da trattenere in qualche misura l’umidità, e provviste di etichette via via più fantasiose e colorate che, in fatto di trovate nel nome e nell’immagine, competevano degnamente con le superfici dei contenitori metallici.
L’inizio del Novecento fu contrassegnato da due eventi capaci di segnare una svolta nei contenitori: di inizio secolo è il brevetto per la sigillatura sottovuoto delle lattine; al 1919 risale l’apparizione del cellophane: la sua prima applicazione a una confezione di sigarette è del 1931.
Col passare degli anni, mentre si consolidavano le grandi imprese del tabacco, la comunicazione del prodotto si fece più misurata: rinunciando al diluvio di nomi e immagini, l’attenzione si concentrò su un numero minore e consolidato di marchi.
Da allora, altri progressi. Le attuali buste, validissimi sostituti di incarti e sacchetti, utilizzano un sandwich di carta stampata e film plastici, naturale evoluzione del cellophane. Le lattine, confezionate sottovuoto con diversi accorgimenti e curate graficamente per quanto consentito dalle norme di legge, sono le perfezionate discendenti di quelle coloratissime di cent’anni fa.
In parallelo, il tabacco da pipa ha sempre avuto ed ha tuttora un altro modo di essere contenuto, portato, protetto. Un modo più personale e gratificante.
Accadeva già ai tempi di Colombo che gli indigeni portassero con sé le foglie dentro a sacchetti. Allora, oltre che per fumare, il tabacco serviva pure da moneta. Sacchetti o contenitori d’altra foggia, fatti in diversi materiali (pelle o anche tessuti), opera di artigiani o autoprodotti, non smisero mai di essere al fianco dei fumatori: ne aveva uno, che gli era molto caro, anche il pioniere della pipa Sir Walter Releigh. Pure oggi sono necessari a chi vuol portarsi in giro il necessario per fumare senza trascinarsi dietro buste o lattine. Sono, a tutti gli effetti, un elemento non trascurabile nell’esperienza del buon fumatore.
Al Pascià produce porta tabacco e porta pipe (con porta tabacco incorporato) dal 1990. Furono gli stessi clienti, ben abituati all’eccellenza negli arnesi da fumo, a chiedere anzi pretendere accessori del medesimo livello. Accontentarli era una sfida complessa. Non una semplice questione di design, di scelta dei materiali, di selezione degli artigiani: c’era tutto un mondo da esplorare fuori dal porto sicuro della pipa. Ma le sfide piacciono ad Al Pascià.
Oggi sono undici i modelli Al Pascià di portapipe, capaci di contenerne (insieme al necessario porta tabacco) da una a sette. I più semplici ma elegantissimi porta tabacco offrono otto possibilità di scelta. Il tutto moltiplicato per le varianti di colore. Il materiale prescelto dopo un buon numero di esperimenti è una morbida, flessibilissima, resistente e durevole nappa d’agnello alla quale, per la parte che racchiude il tabacco, è abbinata una foderatura in purissimo lattice di gomma naturale. Una particolare “tasca” consente di prelevare ogni volta la quantità giusta di tabacco senza dover esporre all’aria la parte che rimane.
Contenere, portare, proteggere il tabacco in un accessorio Al Pascià non è la semplice risposta a una necessità pratica. Oggetti così vanno guardati, annusati, toccati: se ne traggono altrettante buone sensazioni da abbinare a quelle, così uniche, del fumo con una pipa di Al Pascià.
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