Nella metà superiore, il cielo e le stelle; in quella inferiore, le terre e i mari; nella linea di congiunzione, l’orizzonte: è un’enorme zucca sferica l’Universo, secondo la tribù nigeriana degli Hausa. A quella dei Gurunsi (Burkina Faso) basta la forma tondeggiante di una zucca normale per intravedervi l’avvicendarsi delle stagioni, le diverse fasi della nostra vita. Non sfugge a nessuno il fascino evocativo leggermente sinistro delle zucche intagliate e illuminate di Halloween. Quanti sogni poi, quante fantasie con quella zucca elegante che, fino a mezzanotte, è la magica carrozza di Cenerentola.
Ma come fa un semplice vegetale, un prodotto dell’orto, a fascinarci tanto da assurgere a protagonista di favole e miti? È che per millenni le zucche non sono state semplici ortaggi ma la base di importanti oggetti d’uso: il loro involucro seccato, lavorato, decorato ha dato forma a contenitori d’ogni genere, mestoli, copricapi, galleggianti per reti, casse armoniche per strumenti musicali, maschere, altri oggetti rituali… Utili, indispensabili, onnipresenti nella vita di tutti i giorni, le zucche hanno così finito per trovarsi un ruolo anche nel regno inconoscibile dell’immaginazione. Tornando alle cose concrete: alcuni di quei robusti, leggeri, impermeabili recipienti servirono per fumare anche prima del tabacco, quando a bruciare erano diverse erbe aromatiche fra cui la canapa. Non si trattava in genere di pipe a secco, ma di arnesi grazie ai quali il fumo veniva fatto gorgogliare nell’acqua prima di arrivare alle labbra del fumatore.
La guerra iniziata l’11 Ottobre 1899 nella parte più meridionale dell’Africa fu molto dura. Nella sua fase più intensa vide 450.000 soldati dell’Impero Britannico contro 52.000 contadini e allevatori di origine europea che non volevano diventare sudditi della Regina Vittoria prima, del suo erede Edoardo poi. Ma quelli non erano contadini qualsiasi: erano i Boeri. Discendenti dai primi coloni olandesi sbarcati nel Seicento al Capo di Buona Speranza e dagli Ugonotti venuti dalla Francia per sfuggire alle persecuzioni. Man mano che la sfera d’influenza britannica si espandeva, si erano spinti sempre più all’interno per mantenere autonomia e identità, strappando sempre nuove terre agli indigeni con aspri combattimenti, spostandosi su carri trainati da buoi, dissodando ogni volta daccapo, fondando le due repubbliche indipendenti dell’Orange e del Transvaal. Gente fierissima, temprata, esperta nel combattimento e profonda conoscitrice del territorio che i britannici faticarono molto a piegare nonostante la superiorità numerica. Fieri e feriti i nativi africani, che subirono a casa propria le scorribande degli uni e degli altri, coinvolti in vari modi nel conflitto e soggetti a ogni genere di angherie. Dagli uni e dagli altri. La Grande Guerra Boera si concluse il 31 Maggio 1902 col trattato di Vereeniging. Fra i suoi effetti collaterali, una pipa.
Fin dall’inizio della guerra, e man mano che le vicende belliche richiamavano altre truppe, Città del Capo si era riempita di soldati provenienti dalla Gran Bretagna, dall’India, dal Canada, dall’Australia… E tutti fumavano. Le pipe che avevano portato con sé erano in radica, spesso del tipo billiard con spigot-mount: l’estremità del bocchino che si innestava nel cannello era rastremata e rivestita di metallo, perlopiù argento; il cannello era rinforzato con una ghiera dello stesso materiale. Ciò permetteva di smontare e rimontare la pipa senza danneggiarla anche quando era calda; ma non la proteggeva dalle cadute: e, in una guerra da combattere tutta a cavallo, c’erano tanti soldati che sapevano a mala pena stare in sella! Fu la fortuna di chi vendeva, fabbricava, riparava pipe a Cape Town e Durban. Ma non sempre le riparazioni erano possibili, e di fronte a tanta richiesta le scorte di pipe e radica grezza scarseggiavano. C’erano alternative? Un altro materiale per fumare esisteva in quelle regioni: i nativi ne adattavano l’involucro svuotato e disseccato, vi versavano acqua e in essa facevano gorgogliare il fumo. Se l’alternativa era solo questa, valeva poco: troppo distante dagli usi europei.
Pianta annuale rampicante a fiori bianchi, con frutti a buccia liscia dura e sottile, la Lagenaria Vulgaris appartiene alla grande famiglia delle cucurbitacee. Il suo frutto (ossia la zucca) ha una forma allungata pseudocilindrica che parte da un fondo panciuto per poi man mano rimpicciolirsi fino a uno stretto collo a diametro costante che tramite un gambo si lega alla pianta. Queste zucche erano caratteristiche delle zone montuose a Est di Cape Town. Chi voleva trasformarle in pipe ad acqua non buttava via nulla: il corpo disseccato faceva da serbatoio; in cima alla sua parte più panciuta si innestava il fornello con la cannula da immergere nell’acqua; il collo in qualche modo adattato fungeva da bocchino. Ma ricavarne pipe all’europea era più difficile. Finché a qualcuno (non si sa né chi né quando) venne l’idea di impiegare solo una parte del frutto. Forse europeo, forse africano, dovette trovarsi a osservare un campo di zucche arrivate a maturazione; se poi era il coltivatore, tanto meglio: aveva potuto seguirle giorno dopo giorno. Poiché i tralci erano tenuti molto bassi sul terreno, all’inizio i frutti erano rimasti sospesi alla pianta ma crescendo, sotto l’effetto del peso, avevano iniziato ad abbassarsi e Il collo si era adattato flettendosi. Poggiato a terra, il frutto si era poi progressivamente ingrossato e il collo aveva dovuto via via adeguarsi assumendo gli andamenti più vari per mantenere il collegamento con la pianta. In prossimità del raccolto i tanti colli sul campo presentavano una discreta varietà di fogge, ma alcuni più degli altri attirarono l’attenzione dell’osservatore, che non doveva esser digiuno di pipe: la loro curvatura faceva quasi pensare al bocchino di una bent! Forse non andò esattamente così, ma fu da un’intuizione del genere che scaturì l’idea.
Nel continente africano il termine calabash, di etimo incerto (arabo? persiano?) significa “zucca”. Oppure recipiente, manufatto che da una zucca è ricavato. Nel mondo dei fumatori indica quella particolarissima pipa a secco apparsa la prima volta in Sudafrica, ricavata dalla Lagenaria Vulgaris, scaturita da un’intuizione alla quale dovette però seguire un cammino incerto, non lineare, fatto di tentativi, errori, altri tentativi, altre intuizioni, altri errori... Non ce ne volle poco, di tempo, dai primi esemplari abbozzati a uso personale a quelli offerti localmente in piccole quantità fino a quelli più rifiniti in vetrina a Cape Town. Ma all’epoca della Grande Guerra Boera questa fase evolutiva doveva essere già a buon punto; in parallelo si delineava anche la sequenza delle lavorazioni, che nell’impegno dei coltivatori aveva, e ha tuttora, il suo punto di partenza.
Una zucca raccolta dal campo è adatta per fare una calabash solo se il collo risponde a precisi requisiti: la sua curva è unica, regolare, poggiata su un unico piano, stretta o ampia a seconda delle richieste dei compratori; il piano d’appoggio della curva è in asse con il corpo della zucca. Se si lasciasse fare alle piante, arrivati a maturazione sarebbero ben pochi i frutti utilizzabili: per questo è necessario intervenire assiduamente nel corso della loro crescita. I parametri richiesti vanno man mano ristabiliti riposizionando ogni volta la zucca sul terreno con l’aiuto di piccole pietre o zolle messe ai lati. Gli aggiustamenti, almeno uno alla settimana, vanno eseguiti con delicatezza nelle ore più calde della giornata quando i colli sono più flessibili, sennò si spezzano. La massima cura va riservata all’irrigazione e alla lotta contro quei parassiti che rovinerebbero tutto.
Una volta raccolte, le zucche incontrano una sega: una specie di trombetta comprendente il collo e una piccola parte del corpo viene separata da tutto il resto, destinato all’alimentazione del bestiame. Le trombette sono poi gettate in acqua bollente per rimuovere la pellicola esterna, seccate con gli opportuni accorgimenti per evitare muffe o rotture, infine divise in base alla taglia e alla qualità.
Entra in gioco a questo punto il fabbricante di pipe, pronto a perfezionare quanto di buono natura e uomini hanno già fatto.
Per quanto somigli vagamente a una pipa, il semplice frammento di zucca fatto a trombetta non è ancora strumento da fumo: tra l’altro, non resisterebbe molto al fuoco. Qualcosa va aggiunto, qualcosa modificato. Nella sua apertura più ampia c’è da inserire un fornello: inizialmente fu di latta o gesso; ma ideale si è presto rivelata la schiuma di mare. All’altra estremità si riduce il collo alla giusta lunghezza per poi applicarvi il bocchino ottenendo un’elegante sinuosità. Ancor meglio, si fissa al collo un prolungamento di norma corto, spesso in radica, nel quale innestare il bocchino; anche in questo caso l’effetto curva e controcurva è assicurato. Aggiunte altre finiture, a questo punto la trombetta è diventata una calabash.
Ai tempi della Grande Guerra Boera non poteva essere questa la risposta a chi chiedeva solo un sostituto delle pipe in radica col quale condividere le cavalcate. Ma chi provò una sola volta a usarla non la lasciò più. Pipa d’emergenza? Gadget coloniale? Molti lo pensarono, ma dovettero ricredersi: la calabash era ed è tuttora una delle migliori pipe che i fumatori abbiano mai avuto a disposizione.
Chi vendeva e riparava pipe a Cape Town negli anni da prima della guerra a dopo la sua conclusione? Una certa Goldie & Co. ad esempio, di cui non si sa nulla. O una certa C. D. Fox che si presentava come “Commercianti all’ingrosso di tabacco e chincaglieria, fabbricanti di pipe calabash e riparatori di pipe in genere”. O un certo Henry Vos, orafo, che già nell’anno 1900 fabbricava calabash. O una certa Blatter & Co. il cui nome è scritto a penna su un diploma dell’Esposizione Industriale Internazionale di Cape Town, 1904-05: la società aveva vinto la medaglia d’oro per “colonial made pipes”. Nella guida della stessa esposizione un annuncio pubblicitario afferma che i Blatter erano gli “originali (originari?) produttori delle pipe calabash”.
I Blatter erano tre fratelli con una certa esperienza in fatto di arnesi da fumo: sia il padre che lo zio, di origine svizzera, li fabbricavano a Londra. Ernest e Marguerite non avevano ancora vent’anni quando nell’autunno 1899, a guerra Anglo-Boera appena iniziata, partirono per Cape Town portando con sé gli arnesi dei pipe-maker, una discreta scorta di radica e un ottimo senso degli affari; Henry Louis, appena sedicenne, li raggiunse tre mesi dopo. Dal primo negozietto fuori mano si spostarono presto in centro, presi d’assalto da migliaia di soldati alla ricerca di pipe o con pipe da riparare! In uno scritto del 1948 Henry Louis afferma: “Nei seguenti tre anni nei quali la guerra fu combattuta facemmo ottimi affari... Fummo molto impegnati nella manifattura di quelle pipe di zucca perché tutti i soldati volevano portarne a casa una o due… le calabash e le piume di struzzo erano gli unici articoli venduti ai soldati che fossero realmente di origine sudafricana, non riuscivamo a produrre quelle pipe abbastanza velocemente… Alla fine della guerra il boom finì”. Va osservato che la Grande Guerra Boera non durò tre anni ma solo due anni sette mesi e una ventina di giorni. L’affermazione esagerata di Henry Louis porta comunque a pensare che i Blatter fabbricarono calabash per tutta la durata della guerra a partire dal loro arrivo a Cape Town, o quasi: prima di iniziare avranno pur avuto bisogno di ambientarsi, e soprattutto di imbattersi in quelle pipe di zucca; le quali dunque c’erano già. Probabilmente un po’ rozze, con il collo non esattamente in asse, col fornello di latta o di gesso, ma c’erano. Forse ha ragione chi afferma che già le usavano i Boeri, che c’erano già piccole produzioni locali a Cape Town o nei centri vicini… Certo i Blatter fecero tesoro della loro esperienza londinese rendendo più raffinati i manufatti, introducendo forse quel fornello in meerschaum che fa la differenza; ma dire che fu Henry Louis a ideare la calabash come si legge in una rivista specializzata del 1952 è quantomeno esagerato. In ogni modo il diploma dell’Esposizione (1905) dimostra che i Blatter furono leader nella produzione di quelle pipe, ancora fabbricate esclusivamente a Cape Town e dintorni e quasi sconosciute nel resto del mondo.
Andati via i soldati gli affari calarono vistosamente, e restavano tutte quelle calabash invendute… Era il 1902 quando Henry Louis le caricò su una nave diretta a Londra. Lì si scatenò a cercare compratori ma trovò reazioni fredde, seccate, quasi canzonatorie: quegli arnesi fatti con la zucca erano curiosità, souvenir della guerra e nulla più; di lì a qualche anno nessuno li avrebbe nemmeno ricordati. Lasciò le pipe in deposito da qualche parte e tornò in Africa. Ma l’anno dopo la musica era cambiata. Lo richiamarono a Londra, gli acquistarono a prezzo vantaggioso tutte le calabash, gliene ordinarono altre a centinaia! Furono anni d’oro passati a fabbricarne in quantità e a spedirle a Londra, ma dal 1906 gli ordini cessarono quasi di colpo, per una semplice ragione. Chi fabbricava calabash a Cape Town aveva le zucche a portata di mano ma doveva importare tutto il resto a costi non indifferenti; a Londra invece c’era disponibilità di materiali, attrezzature e manodopera specializzata. Mancavano solo le zucche; che ci voleva a importarle? In poco tempo le Case londinesi avevano stretto accordi diretti con i maggiori coltivatori di lagenaria vulgaris nella regione del Capo o con i loro agenti tagliando fuori i Blatter i quali, fiutato il vento, si rimisero in cammino: da Cape Town passarono a Montreal dove i loro discendenti proseguono ancor oggi l’attività nel campo delle pipe. Ad essi va il merito di aver portato a termine il processo di maturazione delle calabash e di aver dato il là alla loro diffusione nel mondo.
Londra e poi altre località si sostituirono dunque a Capetown, ma da quella zona continuavano (e continuano) a provenire, necessariamente, le zucche. In tanti provarono a coltivarle a casa propria procurandosi in qualche modo i semi, dei quali i coltivatori sudafricani erano gelosissimi, ma gli esperimenti fallirono soprattutto per una questione di clima. Solo a trecento chilometri da Cape Town, nelle vicinanze della cittadina di Ladismith, sui terreni secchi e sabbiosi a trecento - seicento metri di altitudine nelle valli del Little Karoo arse dal sole, si riusciva e si riesce a ottenere il prodotto giusto per le favolose calabash. Favolose, allora e oggi, per più d’un motivo.
La loro estetica è fatta di sinuosità e finiture ma anche di colori: a pipa nuova la parte in zucca ha un bel tono biondo che, fumando, passa a un dorato intenso che evolve poi in ambrato. Altre proprietà della zucca sono il gusto neutro e la buona capacità d’assorbimento; l’uno e l’altra contraddistinguono anche il fornello in meerschaum. Sia zucca che fornello sono leggeri, dunque leggera è la pipa. In quanto a resistenza, la zucca seccata non è inferiore a nessuno. Ma un altro fatto rende unico questo strumento: la cavità della zucca è occupata solo parzialmente dal fornello conico; uscendo dallo scarico di fondo posto al centro, il fumo trova una notevole camera d’espansione nella quale si raffredda e perde umidità. Il risultato è una pipa che pesa come una piuma, è ben equilibrata, regala un fumo fresco e secco, trasmette appieno il gusto del tabacco.
Tanti buoni motivi, insomma, per non privarsi del piacere della calabash. Quella che era sembrata una semplice curiosità ha ormai passato abbondantemente il secolo vivendo stagioni più o meno felici ma restando, ancor oggi, il sogno segreto di tanti fumatori.
L’epoca d’oro delle pipe-di-zucca durò fino alla prima guerra mondiale o poco oltre; dopo Cape Town proseguì a Londra e in qualche altra piazza sempre in ambito anglosassone. La capitale britannica era il centro del business: protagonista assoluta la società Adolph Frankau & Co. titolare del marchio BBB, seguita a distanza dalla Freidrich Edwards Co. e poi (con produzioni inferiori, a volte molto ridotte) da Barling, Carrington, Charatan, Comoy, GBD, Loewé, Freidrich Oppenheimer & Co., Orlik e altri. Montreal era la piazza dei Blatter. A New York c’erano Kaufman Bros.& Bondy, Manhattan Briar Pipe Co. , Colossus Pipe Factory…
Rispetto alle pipe in radica o meerschaum, la calabash non era di certo inferiore in quanto a lusso e prezzi, spesso le sopravanzava. Giunta a Londra, aveva chiuso con i fornelli di latta o gesso optando decisamente per la schiuma, in blocco o rigenerata. Il bocchino poteva essere di ebanite ma anche di finissima ambra, anch’essa in blocco o rigenerata. Il prolungamento, in genere di radica e piuttosto corto, poteva allungarsi grazie a “tubi” d’avorio o di osso alare di albatro. L’argento abbondava sotto forma di anelli, ghiere, cappucci, frangivento. Il lusso tipico dell’era edoardiana emanava prepotentemente da questi oggetti spesso racchiusi in contenitori altrettanto raffinati. Nei modelli di punta il fornello era removibile per consentire una agevole pulizia. Le dimensioni erano relativamente ridotte, così come la curvatura del collo.
Finita la guerra, il mondo era profondamente cambiato: le tante diverse varianti, le fantasmagoriche decorazioni cedettero il posto a una nuova elegante sobrietà. Alla piazza di Londra si affiancò prepotentemente quella di New York protesa verso un mercato smisurato nel quale le calabash si vendevano spesso per corrispondenza e nei drugstore oltre che nei negozi eleganti. Specie negli USA, le pipe di zucca videro aumentare la loro stazza insieme alla curvatura del collo. Mentre Frankau continuava la sua corsa in Gran Bretagna, dall’altra parte dell’Oceano fu la volta di Kaufman Bros col marchio Kaywoodie e poi di Pioneer mentre in Austria Bauer iniziava a fabbricare calabash. In Canada andavano avanti i Blatter.
Nel secondo dopoguerra il predominio fu di americani e austriaci, con un certo risveglio d’interesse negli anni fra il 1975 e il 1990 quando anche alcuni noti produttori di pipe in radica ebbero le loro speciali calabash a tiratura limitata. Poi la situazione si è fatta più calma; i pochi specialisti rimasti operano in Austria e Turchia. Un lento declino o una pausa di riflessione? Di sicuro non cala il potere seduttivo di una pipa molto bella che funziona nel migliore dei modi, nonostante il prezzo sia necessariamente alto, legato com’è alla gran quantità di lavoro manuale che la calabash comporta.
Non cala nemmeno la passione dei collezionisti, alla ricerca di esemplari di tutte le epoche nelle aste e nelle vendite specializzate su internet. Nel loro mirino le prime Blatter, le rinomate BBB, le raffinatissime Loewé, le brevettate Carrington, le Albert Baker con finiture placcate oro, le mitiche Orlik, Barling, Charatan, Comoy ma anche le più recenti e particolarissime Fischer oppure le Pioneer e Kaywoodie, tipiche americane. Alcuni appassionati si spingono più in là spostando l’attenzione verso quelle pipe che calabash non sono ma alla calabash si ispirano: le calabash shape, che replicano la struttura della pipa in zucca senza però impiegare la zucca, oppure ne richiamano semplicemente la forma.
Ma ci sono anche pipe che della calabash emulano semplicemente le qualità fumatorie: fu il pipe-maker russo Michail Reviagin, attorno al 2009, a porsi il problema di come ottenere lo stesso fumo secco e fresco da uno strumento in radica. Ci voleva una camera d’espansione, ovviamente, ma dove metterla? L’unico volume disponibile era quello del cannello, che però doveva “ingrassare” aumentando le sue dimensioni.
Dopo Reviagin si sono cimentati in tanti nel nuovo genere di pipa, e l’hanno chiamato reverse calabash; non si capisce bene dove stia il “rovesciamento” quando si è solo spostata la camera d’espansione dalla testa (delle calabash) al cannello (delle radiche). Eppure questo è il nome, e questo rimane. Le nuove pipe avevano ottime doti e non pochi estimatori; qualche perplessità destava la forma, così insolita rispetto a quelle degli altri modelli. Erano comunque pezzi di bravura di grandi artigiani, realizzati in serie limitate e venduti a prezzi conseguenti.
Un vero peccato non poter offrire uno strumento così valido a un maggior numero di fumatori: il pensiero cominciò a girare nelle menti creative di Al Pascià. Ma per arrivare a una reverse realmente diversa e innovativa era necessario “rovesciare” una serie di ragionamenti. Primo: la nuova pipa non avrebbe dovuto nemmeno porsi il problema di essere poco slanciata. Le sue curve andavano anzi messe bene in mostra, tanto da caratterizzarne perfino il nome: Curvy. Una pipa grassottella e positiva, insomma: come certi personaggi di Botero. Secondo: quei cannelli erano troppo pesanti anche perché la camera d’espansione al loro interno era cilindrica. Ridisegnandola a forma conoidale si sarebbero ottenuti due risultati: una parte esterna più armoniosa, una camera interna arrotondata facilissima da pulire. Terzo: nelle finiture si doveva osare, catturare tutti i gusti suscitandone anzi di nuovi, spaziando dalle classiche venature della radica ai colori squillanti, alle combinazioni di colore mai viste. Quarto: con tutto il rispetto per i grandi artigiani, curvy sarebbe stata sfornata in maggiori quantità da aggiornatissime macchine a controllo numerico riducendo drasticamente i costi e dunque il prezzo.
Dopo tre anni di ragionamenti, prove, messe a punto, perfezionamenti Curvy è nata nel 2015 facendosi subito notare: un fulmine a ciel sereno, un oggetto desiderabile alla portata di tutti. Le vecchie e nuove calabash la guardano con simpatia, come si guarda un nipote buono ma solo un po’ scapestrato.