Gli assedianti avanzarono. Con calma presero il controllo delle armi; poi, a un segnale, iniziò il massacro.
Circa seicento uomini, italiani e spagnoli, erano sbarcati pochi giorni prima vicino ad Ard na Caithne, nel Sud Ovest dell’isola, con molte armi e munizioni destinate agli insorti sulle montagne. Ma navi inglesi avevano bloccato in mare la piccola flotta spagnola; reparti inglesi di terra si erano interposti fra gli insorti e i nuovi arrivati stringendo questi ultimi verso l’antico forte in disuso. Senza via di scampo, vistisi rifiutato un accordo onorevole, senz’acqua, dopo tre giorni di cannoneggiamento i seicento si erano messi, senza condizioni, nelle mani del nemico. Ma solo i più alti in grado furono risparmiati: perché tornassero e riferissero.
Guerre di religione? Certamente. Protestanti (a loro modo) gli inglesi, cattolici gli irlandesi gli italiani e gli spagnoli. Il Concilio di Trento si era concluso appena 17 anni prima. Ma ancor più contavano le questioni di potere. Dietro a quella spedizione, piccola, anonima ma mirata a frustrare le ambizioni di Elizabeth I d’Inghilterra, si celavano papa Gregorio XIII e re Filippo II di Spagna. Ard na Caithne, in irlandese, significa corbezzolo. Per gli inglesi la località suonava Smerwick. L’assedio e la tragica conclusione, 1580, sono solo un episodio di quella che gli storici chiamano Second Desmond rebellion. Ma un particolare sembra interessante: a detta di alcuni storici le truppe incaricate del massacro, ordinato dal comandante in capo, erano condotte da due capitani. Uno di essi si chiamava Walter Raleigh.
Raleigh ma anche Rawley, Rauley, Rauleygh, Ralegh: tanti i modi di scrivere il cognome nell’arco della sua vita. Per pronunciarlo correttamente, “Rawley” dovrebbe essere la variante più adatta. Era nato nel 1552 o forse un paio d’anni più tardi in una fattoria chiamata Hayes Barton, frazione del paese di East Budleig, contea del Devonshire, affacciato sulla parte occidentale della Manica. Il padre, Walter Raleigh senior, era un gentiluomo di campagna, piccola nobiltà di provincia, impegnato insieme ai figli maggiori a curare le greggi e a gestire alcune piccole navi da carico. Uno spirito libero, spregiudicato, attivo e ben introdotto nella società del luogo; grazie alle sue tre mogli aveva acquisito una serie di importanti parentele. Walter junior era l’ultimo di sei fratelli cui si aggiungevano i tre figli (primo matrimonio) della madre. Un’infanzia piena di stimoli: in famiglia e in paese si parlava di mare navigazione esplorazioni e altre avventure, il porto di Plymouth non era distante. Ma anche di armi, di guerre. Un’infanzia spesso difficile, con tanti fratelli, ma soprattutto per le persecuzioni che ai tempi della regina Mary la sanguinaria subivano i protestanti. Suo padre aveva rischiato seriamente di essere ucciso quando lui era piccolo: il ricordo di quei tempi, o i racconti in famiglia, ne avevano fatto un convinto odiatore dei cattolici.
Cresciuto in fretta, il giovane Raleigh era un ragazzo ben piantato, sicuro di sé, coraggioso e fiero fino all’arroganza. Un suo parente da parte di madre, Henry Champernowne, si preparava a partire per la Francia al comando di un contingente a cavallo per sostenere gli Ugonotti, contro i cattolici! Walter aveva 17 anni o forse quindici, ma era pronto a fare la sua parte. E a scoprire il mondo. Si arruolò. Passò in Francia tre anni, dal 1569 al ‘71, partecipando a diverse battaglie: anche a quella di Jarnac quando la sua parte subì una atroce e sanguinosa sconfitta. Esperienze che lo segnarono portandolo a uno scetticismo di fondo, a un senso di caducità di tutte le cose terrene.
Tornato in patria lo si ritrova nel 1572 all’Oriel College, Università di Oxford, dove studiò Aristotele e si distinse in oratoria e filosofia senza però conseguire il diploma. Tre anni dopo era all’onorevole società del Middle Temple, rinomata associazione professionale che fungeva tra l’altro da scuola di formazione per avvocati. Ma gli studi non facevano per lui, focoso uomo d’azione. Strinse però amicizia con parecchie persone di valore che lo avrebbero poi affiancato in tante occasioni. E, in quell’atmosfera tipicamente elisabettiana del rinascimento inglese, a contatto con artisti intellettuali e scienziati, il rude guerriero scoprì in sé una inaspettata e sensibile vena poetica. Ma su tutto prevaleva la voglia d’avventura: la stessa che infiammava il suo fratellastro Humphrey Gilbert, più vecchio di 13 anni, figlio di primo letto della madre, “Sir” dal 1569 per le sue imprese militari in Irlanda. Affezionato a quel fratello minore dal carattere forte e indocile, Humphrey lo aveva preso sotto la sua ala. Quando nel 1578, su preciso mandato della sovrana, partì con una flotta per il Nord America, gli affidò il comando di una delle navi. La spedizione, mal preparata, andò male. Nessuno varcò l’Oceano; ma l’ultimo vascello a tornare indietro, quello spintosi più lontano, rispondeva agli ordini di Walter Raleigh.
Una zia della madre, Kat Astley, era stata governante della futura regina da quando questa aveva quattro anni e ora, diventata sua amica e confidente, era presenza abituale nelle sue stanze più private. Grazie a lei probabilmente, con un incarico di poco conto, Walter venne ammesso a Corte: un migliaio di persone che, impegnate in relazioni svaghi e cose serie, si spostava spesso da un palazzo all’altro. Quel suo esordio, 1580, fece scalpore. L’ultimo arrivato si comportava come il più importante dei cortigiani dando nell’occhio, in un ambiente di elegantoni, per l’eccessivo lusso del suo abbigliamento. Orgoglioso e scostante, si trovò a duellare con un rivale per una futile questione: entrambi finirono in prigione per sei giorni. Poco più tardi, altro duello per motivi di tennis che qualcuno bloccò all’ultimo momento, e nuova permanenza in prigione. Se la sua intenzione era farsi notare ci era riuscito: come premio, o punizione, lo spedirono in Irlanda al comando di cento uomini. Fece la sua parte a Smerwick come in altri luoghi di quella cruenta disputa fra religioni e patrie; a fine 1581 tornò alla vita di Corte. Reduce dalla guerra, convinse il potentissimo William Cecil a scrivere insieme a lui una relazione per la regina sulla questione irlandese e i modi più opportuni per risolverla. La regina iniziò ad accordargli vantaggi e privilegi, mentre lui la inondava di accorte gentilezze ed elaborati elogi in versi.
Stavolta non era partito per le Americhe con il fratellastro, il quale varcò l’Oceano e raggiunse Terranova ma, nel viaggio di ritorno, sparì in mare. Era il 1583. La posizione a Corte di Raleigh si era rafforzata politicamente e finanziariamente; nel palazzo sul Tamigi concessogli dalla Regina incontrava investitori ed esperti di vario genere progettando e concretamente preparando future imprese nel nuovo mondo.
A parte il gusto per l’avventura e la retorica della civilizzazione, il ragionamento era concreto: non si poteva lasciare tutta l’America agli Spagnoli. Sulla costa Nord Orientale c’erano terre in abbondanza da colonizzare ma il primo obiettivo era stabilire basi sicure per le navi inglesi che, girando i mari, assalivano e depredavano gli insediamenti spagnoli e soprattutto le loro navi piene di beni preziosi da portare in Europa. Stesso discorso per vascelli di altre nazionalità, se le loro stive lo meritavano. Corsari, insomma, che gli spagnoli chiamavano perros del mar, in inglese sea dogs. Ma in Inghilterra si preferiva parlare di privateers: iniziative private dedite a scorrerie come ad esplorazioni oltre che a traffici vari compresa la tratta degli schiavi. Quelli che non soccombevano nel corso delle imprese e tornavano in patria carichi di tesori ne cedevano una parte cospicua alla regina la quale, spesso, ricavava più introiti in questo modo che dall’imposizione di tasse e balzelli. E dunque, più o meno tacitamente, incoraggiava. Oltretutto la continua pressione sulla flotta spagnola di corsari grandi e piccoli la logorava; le relazioni commerciali che questi imbastivano insidiavano il monopolio spagnolo sugli scambi transoceanici; e per togliere ogni scrupolo ci si poteva sempre appellare alla solita guerra di religione. Inoltre questi imprenditori a cavallo fra lecito e illecito avevano bisogno, per riuscire al meglio, di perfezionare le tecniche di navigazione, le armi, il disegno e la struttura delle navi, con un ritorno per tutta la marineria nazionale. In caso di scontro con gli Spagnoli, i loro vascelli avrebbero potuto ben collaborare.
I più noti privateers erano John Hawkins e Francis Drake, entrambi del Devon e imparentati con Raleigh il quale, più giovane di una decina d’anni, era già avviato nella stessa direzione. Per questo, e non solo per la prestanza il carattere o l’eccessiva eleganza, interessava tanto alla Regina. Anche quei suoi versi appassionati che paragonavano Elizabeth a una nuova Diana, caste divinità entrambe, erano perfettamente coerenti con l’immagine che Elizabeth intendeva dare di sé.
Il 1584 andò a gonfie vele per Raleigh: a un prezzo ridicolo mise le mani su un bel pezzo di Irlanda: qualcosa come 16.000 ettari (42.000 acri) nel Sud Est dell’isola, compresi il paese di Lismore e la città fortificata costiera di Youghall. Vendendo a pochi penny per acro ad inglesi fidati le terre sottratte ai capi sconfitti degli insorti, le autorità intendevano anglicizzare il territorio.
Ma soprattutto, nel marzo di quell’anno, ottenne un preciso mandato della regina che lo autorizzava, prendendo il testimone del fratellastro caduto, a organizzare attività di esplorazione e insediamento sulla costa orientale del Nord America. Lo attendeva da tempo: la prima spedizione infatti era già pronta e partì quasi subito, nel mese di aprile. Una missione puramente esplorativa per individuare l’ubicazione più adatta alla futura base e farsi un’idea generale del contesto: l’isola di Roanoke nella attuale North Carolina sembrò la miglior soluzione; con le popolazioni autoctone si stabilirono discreti rapporti, tanto che due indigeni di alto lignaggio salirono volontariamente sulla nave per seguirli in Inghilterra. Tornarono verso ottobre, sempre del 1584.
Un trionfo. Nel novembre Raleigh fu eletto membro del Parlamento, e in Parlamento, con l’appoggio di due grossi calibri quali Sir Francis Drake e Sir Richard Grenville, chiese appoggio per i successivi viaggi che già stava organizzando. Il 6 Gennaio del 1585, nominato Cavaliere, divenne egli stesso Sir. Poco più tardi assunse la carica di Governatore della Virginia: tale era, per sua precisa volontà condivisa dalla sovrana, il nome da dare a quelle nuove terre inglesi. Virginia in onore della “regina vergine” Elizabeth.
I preparativi per la seconda missione terminarono ad aprile; alcuni avevano addirittura imparato dai due ospiti americani il linguaggio della gente di laggiù. Partirono il 9 del mese con una flotta più grande rispetto alla prima volta, molte più persone, tutti uomini e in gran parte militari, pronti a impiantare una solida colonia. Ma una tempesta disperse quasi subito le navi, solo due si ricongiunsero a Portorico. Catturarono due vascelli spagnoli. Nei pressi di Roanoke l’ammiraglia si arenò in acque basse con la perdita di quasi tutte le scorte… Finì che, fra giugno e luglio, si insediarono in numero minore del previsto e in una situazione abbastanza precaria. Eppure riuscirono a esplorare un vasto territorio indagando sulle sue risorse; con la gente del luogo interagirono in modo spesso maldestro, fino a guastare del tutto i rapporti. Dal mese di settembre, dopo che anche l’ultima nave era partita, si trovarono a fronteggiare il freddo la fame e gli assalti. Tornata la buona stagione le cose non migliorarono. Poi, inaspettato, in tarda primavera, arrivò Francis Drake con la sua flotta, di ritorno da un lungo giro di esplorazioni e azioni corsare. Li trovò allo stremo delle forze. La sua idea iniziale era lasciar loro viveri e qualche rinforzo; finì che li caricò su una delle navi per riportarli in patria. Ironia della sorte, un vascello inviato da Raleigh con i soccorsi arrivò laggiù qualche giorno dopo, ma non trovando nessuno ripartì. Un paio di settimane ancora e fu la volta di una piccola flotta con viveri per un anno e 400 uomini di rinforzo: constatata la situazione, se ne andarono lasciando solo una piccola guarnigione a presidiare l’insediamento.
Quando i reduci giunsero a Plymouth, nel luglio 1586, dovettero fare i conti con un adiratissimo Walter Raleigh: Perché mai se ne erano andati? Ma qualche obiettivo era stato pur raggiunto. Tra l’altro portavano cartografia illustrazioni e preziose testimonianze su luoghi e persone di laggiù. Una accurata relazione sull’esperienza in Virginia fu pubblicata di lì a poco. Oltretutto, la nave che li aveva sbarcati a Roanoke aveva poi assalito e spogliato un galeone nel viaggio di ritorno tornando carica di tesori, e questo per i finanziatori aveva la sua importanza. Non solo: quel giorno a Plymouth i reduci portarono un piccolo, fragrante, souvenir dell’avventura americana. Non esattamente una novità, per gli Inglesi: tabacco e pipe si potevano vedere nei pressi dei porti perlomeno da una ventina d’anni; solo nei pressi dei porti, però.
Forse in Francia, forse in Irlanda, forse ad opera di Francis Drake, Walter Raleigh aveva già incontrato quella particolare erba. Eppure, quando qualcuno dei reduci di Roanoke gliela offrì assieme a una pipa per fumarla, fu per lui una vera fulminazione. La sua pipa d’argilla decorata in argento, il porta-tabacco e tutti gli accessori che servivano a fumare divennero un ulteriore elemento del suo già vistoso modo di presentarsi a Corte, destando curiosità ed emulazione. Scoccava in tal modo la scintilla che, in breve, portò al folle innamoramento degli inglesi per la pipa e il tabacco.
Fra quelle tornate dall’America c’erano persone di esperienza e qualità molto stimate da Raleigh, il quale le convinse a insediarsi nei suoi possedimenti in Irlanda. C’era bisogno di valorizzare quelle terre: con una piantagione di tabacco, ad esempio. Dall’America, con le foglie e le pipe, avevano portato anche i semi: purtroppo della varietà nicotiana rustica, meno gradevole della nicotiana tabacum in mano agli spagnoli. Che in quello scorcio di Cinquecento si sia arrivati a vere piantagioni nei pressi di Youghall non è assolutamente certo, ma la possibilità c’era: basti constatare quanto tabacco fu coltivato nel Sud Est dell’Irlanda a fine Ottocento.
Da lì a due anni, nonostante il parziale fallimento in America, fu un crescendo di soddisfazioni per Walter Raleigh. Cariche amministrative importanti che davano potere e fruttavano rendite gli giunsero da una Regina che intendeva così sostenerlo, affinché portasse avanti le sue imprese. E del resto, anche come amministratore, non era niente male. Nell’aprile 1587 arrivò la nomina più impegnativa: capitano della Guardia responsabile dell’incolumità della sovrana: finalmente i suoi modi arroganti si confacevano alla sua posizione. La quale, consentendogli di frequentare la sovrana fin nelle sue più segrete stanze, rinsaldò ulteriormente il loro personale rapporto facendone un uomo potente, temuto e invidiato.
Intanto, Sir Walter non aveva perso tempo: la sua terza, ancor più ambiziosa spedizione in Virginia era quasi pronta. Nell’arco di pochi anni quello che era stato un militare, un lupo di mare, un elegante cortigiano si era fatto imprenditore. Anche per volere della sovrana non si muoveva più dall’Inghilterra, disponendo e organizzando. Le sue imprese coloniali necessitavano di navi, uomini, informazioni, competenza, strumenti, abilità, materiali, vettovaglie, armi e chissà quant’altro, ma per questo ci volevano i denari. In parte li metteva di tasca propria, qualcosa arrivava dalla regina, il resto lo chiedeva a finanziatori e a proprietari di navi i quali però andavano convinti. Per questo aveva la formula giusta: sparati gli argomenti “alti” sull’opportunità di insediarsi in America, il che però non avrebbe portato immediati guadagni, passava a discorsi più pratici, alle percentuali sul carico prezioso delle navi depredate. Con ragionamenti simili venivano convinti a imbarcarsi anche i marinai: un’azione corsara ben riuscita avrebbe cambiato loro la vita ripagandoli della durissima vita a bordo. Ci tenevano così tanto a quegli assalti che a volte, se non era il capitano a prendere l’iniziativa, cercavano in qualche modo di imporgliela. Ma attaccare vascelli era rischioso. Se andava male, il danno poteva essere grave ripercuotendosi sull’esito stesso dell’impresa. L’otto maggio del 1587 partì la terza spedizione. La più complessa. La più impegnativa.
Poi l’attenzione di tutti si volse alla Spagna. Al suo temibile attacco imminente. Del consiglio di guerra che si riunì a novembre, dodici uomini in tutto, entrò a far parte anche Walter Raleigh. Furono mesi terribili e intensi, nei quali il ruolo di Raleigh fu secondario. Ad agosto 1588 la grande flotta spagnola, la Armada Invencible, veniva pesantemente sconfitta con il decisivo apporto di Francis Drake, degli uomini e delle navi dei privateers.
Ma cos’era accaduto nel frattempo a quel centinaio uomini donne e bambini partiti nel maggio ‘87 col loro fardello di speranze paure e voglia di far fortuna in America?
Una colonizzazione, per quanto ben condotta, è comunque un’intrusione. Lo avevano sperimentato sulla loro pelle gli uomini poi rimpatriati da Drake. Pensare subito al profitto, al “farsi rispettare”, avevano provocato la sorda ostilità dei nativi compromettendo un rapporto che all’inizio era sembrato idilliaco. Ma dai nativi disperatamente dipendevano le sorti di un insediamento ancora precario, poco difeso, a corto di viveri, senza mezzi né tempo per rendersi autonomo da chi legittimamente popolava quei luoghi. Per non ricadere nella stessa situazione e disporre di fondali più profondi per le navi, si era deciso stavolta di spostare la colonia verso Nord, ma prima andava recuperata la guarnigione rimasta a Roanoke nel 1586. La guarnigione non c’era più. Solo lo scheletro di un uomo. Dunque si andava a Nord? No. Il pilota della nave ammiraglia, imponendosi ai capi, stabilì che tutti sbarcassero a Roanoke. Il trasferimento era rimandato; ma in poco tempo le condizioni divennero nuovamente problematiche. Dopo lunghe discussioni si stabilì che fosse John White, responsabile della colonia, a salpare subito per l’Inghilterra e poi tornare con i rinforzi.
Partito il 27 Agosto ’87, White arrivò a Plymouth il 5 Novembre. Si mise subito a organizzare ma la guerra con la Spagna incombeva, tutte le navi servivano a contrastare la flotta nemica. Tanti i tentativi andati a vuoto, infine con l’aiuto di Raleigh riuscì a partire il 22 aprile 1588 con due piccoli vascelli ritenuti inadatti al combattimento. Ma i capitani, le ciurme, avevano troppa voglia di pirateria: invece di correre subito verso l’America si attardarono sulla costa francese; purtroppo per loro, gli attaccati si difesero molto bene. Con più di venti marinai uccisi, le provviste per la colonia rese inservibili e tanti danni, le navi tornarono mestamente indietro. John White, ferito nello scontro, aveva lasciato a Roanoke, più di otto mesi prima, la figlia e una nipotina appena nata.
Solo nell’estate del 1590, attenuatesi le ostilità con la Spagna, riuscì con l’aiuto di Raleigh ad aggregarsi a una spedizione di privateers diretta in America. La loro priorità erano gli abbordaggi, e ne fecero tanti; prima di tornare indietro veleggiarono finalmente verso l’isola. il 18 Agosto, con una barca, superando mille difficoltà, lo portarono a Roanoke ma non trovarono nessuno. Né case né oggetti di alcun genere, né barche, né corpi. Solo una misteriosa scritta incisa nel legno di alcuni pali. La situazione lasciava la lieve speranza che i coloni si fossero spostati altrove, ma le avverse condizioni del mare impedirono qualsiasi ricerca. Anche gli Spagnoli, fra il 1587 e il 1588, avevano attivamente cercato e non trovato quella colonia inglese, che sulla scorta di indizi e voci fantasiose credevano saldamente insediata e dunque pericolosa per loro. Dopo la sconfitta del 1588 non ci pensarono più.
L’esito non del tutto definito dell’impresa in Virginia manteneva aperta la questione: pur con crescenti difficoltà Raleigh ancora non rinunciava; ma fu la vita a trascinarlo altrove. Col genere femminile aveva sempre avuto successo; senza rapporti stabili però, come si addiceva a un corsaro. Sulla soglia dei quarant’anni si innamorò. Purtroppo la regina era molto gelosa delle sue dame di compagnia, ed Elizabeth “Bess” Throckmorton era una di esse. Il permesso di matrimonio andava chiesto alla sovrana, ma era quasi certo che l’avrebbe negato. Che poteva fare allora un pirata innamorato e impaziente in procinto di avere un erede dalla sua amata? Si sposarono in gran segreto nel novembre 1591. La regina, ignara, continuò a colmare Sir Walter di doni, onori, prebende, incarichi.
Il più impegnativo, gennaio 1592, fu quello di allestire una flotta corsara da lanciare contro le navi di Spagnoli e Portoghesi che, al momento, erano unificati sotto Filippo II: nonostante i successi inglesi del 1588 la guerra non era finita. L’imprenditore-pirata si mise al lavoro mettendo insieme uno squadrone di sedici navi di varia provenienza, due delle quali appartenenti alla regina. Il 29 marzo nacque suo figlio Damerai. Salparono il 6 maggio 1592. In qualità di ammiraglio Raleigh prese il mare con la flotta ma un dispaccio della sovrana lo costrinse a sbarcare. Inizialmente la meta era la costa americana, poi si ripiegò sulle Azzorre e lì si svolse una complessa vicenda: attese, spostamenti, scontri, cattura o distruzione di navi, finché all’orizzonte non comparve una caracca. Una nave da carico enorme, mai vista una così. Con una manovra coordinata i piccoli e agili vascelli inglesi logorarono a lungo le sue difese finché non se ne impadronirono. Il sette settembre tornarono trionfalmente in porto con la Madre de Deus.
Intanto, in Inghilterra, era accaduto l’inevitabile: il 7 agosto, scoperto il matrimonio segreto, la sovrana aveva chiuso nella Torre di Londra sia il reprobo che la traditrice.
La Madre de Deus era una caracca portoghese da 1600 tonnellate. Non proveniva dall’America ma da Goa, India. Nelle sue stive c’erano gioielli, perle, monete d’oro e d’argento, ambra grigia, stoffe d’altissima qualità, arazzi e tappeti, spezie d’ogni genere, cocciniglia, ebano, seta grezza, zanne d’elefante, porcellane cinesi, pelli di animali esotici, profumi. Attraccata a Dartmouth troneggiava, gigantesca, su piccole navi e piccole case.
Fin dal giorno della cattura alle Azzorre in tanti avevano portato via qualcosa. Ora stava lì quasi incustodita, affidata a pochi marinai ubriachi disseminati nelle bettole intorno. La voce si sparse in un baleno, arrivarono perfino da Londra che pure era abbastanza distante. Si aggiravano là dentro stralunando gli occhi e prelevando. La regina, avvertita, pensò: ho bisogno di Sir Walter. E lo volle libero.
Come si può immaginare, l’azione di Raleigh e dei suoi uomini fu molto incisiva. Parecchio si riuscì a recuperare. Non tutto. Per portare quei beni a Londra furono necessarie 10 navi di stazza normale. Alle persone che le scaricavano furono imposti vestiti leggeri e senza tasche. Raleigh restò libero, come anche la moglie. Ma non era più ammesso a Corte. Nell’ottobre di quell’anno la peste infuriò su Londra spegnendo il piccolo Damerai.
Tagliato fuori dal centro del potere Raleigh non si diede per vinto facendo di tutto per risalire la china, ma evitò il gesto forse più efficace: chiedere umilmente, assieme a Bess, il perdono della sovrana. Intensificò le frequentazioni con gli intellettuali e gli artisti londinesi, si dedicò alla ristrutturazione del castello di Sherborne, nel Dorset, che la regina da poco gli aveva concesso; prima del 7 agosto, ovviamente. Non trascurò le sue proprietà in Irlanda.
Come sempre non mancò, in parlamento e in altri luoghi, di esprimere liberamente le sue idee: senza troppa prudenza - era il suo carattere - anche sui temi più delicati. Su certe questioni religiose, ad esempio, e venne tacciato di ateismo. O sulla successione al trono: problema non immediato ma ogni giorno più presente man mano che la sovrana avanzava negli anni. In assenza di figli o parenti stretti, era a quelli lontani che si guardava. Fra questi, il pretendente più attivo e accreditato era il re di Scozia James VI Stuart, figlio di Maria Stuarda. Sir Walter non apprezzava quell’uomo, e non faceva nulla per nasconderlo.
Viveva intanto la gioia del nuovo figlio Wat nato nel 1593; e forse approfittava di una fase relativamente più tranquilla per dedicare tempo a riflessioni e bilanci. Chissà quante volte pensò agli errori commessi in Virginia chiedendosi quanto la sua assenza avesse contribuito al disastro. Anche quel mescolare colonizzazione e pirateria aveva reso tutto più difficile e pericoloso, e probabilmente l’avevano intuito anche quelli che ora gli lesinavano i finanziamenti. Altri inglesi, di lì a poco, si sarebbero stabiliti sulla costa americana, ma appoggiandosi a una struttura finanziariamente più solida: la Compagnia della Virginia, unione di mercanti protetta dallo Stato nata sull’esempio, in Inghilterra, della Compagnia delle Indie Orientali.
Oltre che arrogante e testardo, Raleigh era uomo pratico. Alle imprese maggiori ne affiancava di minori. Nel Giugno 1586, quando ancora la colonia di Roanoke era in piedi, aveva mandato “a caccia” alle Azzorre due piccole navi veloci di sua proprietà. Una caccia fruttuosa fatta di avvistamenti e assalti, alcuni riusciti, altri falliti. Quando tornarono tutti incolumi a Plymouth, li accolsero trionfalmente. Il bottino comprendeva zucchero, cera, zanne d’elefante, pelli, legni del Brasile… e un gentiluomo spagnolo. Imbarcatosi il 26 Aprile a Rio de Janeiro sulla Nuestra Señora de Guía, poi catturata dagli inglesi, Pedro Sarmiento de Gamboa era un navigatore, esploratore, astronomo, poeta e condottiero che tra l’altro aveva fondato due colonie in Patagonia. Queste ora si trovavano in condizioni critiche, proprio come quella inglese in Virginia: perciò doveva andare in Spagna a chiedere soccorsi. Raleigh lo portò invece al castello di Windsor di fronte alla sovrana e ai suoi più esperti consiglieri. Da buoni umanisti, conversarono in latino. Interessanti le carte dello stretto di Magellano e altri documenti, recuperati in mare dopo che Sarmiento ve li aveva gettati. Ma restarono di stucco quando lo spagnolo prese a parlare della città dell’oro, delle tante spedizioni per cercarla nelle lande selvagge della Guiana. L’ultima era partita sedici anni prima nella valle dell’Orinoco ma nessuno era tornato indietro, tranne uno. Per una serie di eventi si era trovato solo e affamato nella giungla. I nativi l’avevano salvato e tenuto a lungo con loro. L’avevano portato, bendato, alla favolosa città: il tempo di meravigliarsi per le tante ricchezze e, sempre bendato, l’avevano portato via. Ricomparso poi fra gli spagnoli, aveva raccontato. Una favola probabilmente, che però Raleigh non riuscì a dimenticare.
Anno dopo anno ci aveva riflettuto a lungo, documentandosi per quel che poteva. Ma ora che la regina lo aveva emarginato poteva esser questa la strada per riconquistarla. Così nel 1594 il capitano Jacob Whiddon, uomo di Raleigh, partì per un’indagine preliminare all’Isola di Trinidad, terra spagnola molto vicina alla costa Nord Est del Sudamerica e non distante dalla foce dell’Orinoco. Ma furono scoperti, trucidati, imprigionati. Whiddon riuscì a stento a tornare. Dal suo drammatico racconto si arguì (o si volle arguire) che qualcosa di vero doveva pur esserci nella favola. Gli Spagnoli non ammettevano concorrenti nella corsa a El Dorado! Con l’assenso della regina, Raleigh non perse tempo e si mise a organizzare.