Quattro navi agli ordini di Sir Walter partirono da Plymouth il 6 febbraio 1595. Fatta scorta d’acqua alle Azzorre, vicino alle Canarie presero due vascelli: uno spagnolo carico d’armi, uno fiammingo che trasportava vino. Ai Caraibi avrebbero dovuto ricongiungersi con altre navi, ma alcune che erano salpate prima di Raleigh erano già sulla via del ritorno dopo aver compiuto un buon numero di arrembaggi; altre, partite più tardi col compito di sviare l’interesse degli Spagnoli dalla flotta principale, preferirono proseguire per conto loro verso la costa Nord del Sudamerica. Valutata la situazione, Raleigh manovrò senza indugi verso Trinidad.
Il tempo di arrivare e senza grandi problemi caddero nelle loro mani San José de Oruña, il capoluogo, e il governatore Don Antonio de Berrio. Era la preda più ambita: se c’era qualcuno che sapesse di El Dorado, questi era proprio Don Antonio. Lo fecero parlare senza tanti complimenti, tirandogli fuori a forza solo indicazioni vaghe, fumosi indizi, supposizioni, i miseri risultati delle precedenti ricerche… Ma da qualche parte nei pressi dell’Orinoco c’era una miniera, una città o qualsiasi cosa fosse… Piena d’oro! Bastava solo trovarla.
Lasciata parte delle truppe a presidiare Trinidad, il 15 Aprile imboccarono un braccio del delta dell’Orinoco. Erano un centinaio. A una delle navi, adattata alla navigazione fluviale, si aggiungevano barche a remi e zattere. Durissimo il tratto iniziale: giunga fitta nella quale aprirsi la strada, caldo afoso, piogge; poi un villaggio di amichevoli nativi, e la savana. Un folto gruppo di Spagnoli su una flottiglia di canoe era sulle loro tracce: assaltò la retroguardia di Raleigh ma ebbe la peggio. Le canoe, colme di viveri e strumenti per saggiare i minerali, furono il bottino degli Inglesi i quali, arrivati alla confluenza del Caroni nell’Orinoco, vi trovarono un abitato indigeno piuttosto grande. L’abilità di Raleigh era di stringere forti legami con i nativi in nome della comune avversione agli Spagnoli. Lì stabilirono una base e, con guide locali, proseguirono risalendo il corso del Caroni a cercare quella “ricca cultura” insediata sulle montagne di cui avevano avuto notizia. Videro territori di grande bellezza, e intanto squadre di esploratori setacciavano il territorio alla ricerca dell’oro, tornando con campioni di minerali. Si erano inoltrati per 640 chilometri quando iniziò la stagione delle piogge. Mentre tornavano indietro seppero da un cacicco locale di una miniera d’oro vicino al monte Iconuri: inviarono un drappello che campionò rocce interessanti, ammirò una grande cascata ma niente miniera. Rientrati a Trinidad tutti incolumi, razziarono ogni cosa di valore dando il resto alle fiamme; stesso trattamento per altri abitati spagnoli sulla loro strada. Don Antonio venne abbandonato su una spiaggia. Il 13 Luglio ritrovarono quelle navi che erano servite a sviare gli Spagnoli. Avevano “fatto acquisti” sulla costa Nord del Sudamerica: città come Coro, La Guaira, Caracas avevano patito le loro incursioni. Per raggiungere Caracas, quella dal bottino più grande, era stata necessaria una durissima marcia via terra valicando un passo montano. Alla fine di Agosto 1595 rividero tutti il porto di partenza.
La spedizione non era andata male: ben preparata e ben condotta, tornava con un discreto bottino e un gran carico di dati. Aver stabilito nella valle dell’Orinoco rapporti di amicizia con le popolazioni e i loro capi era premessa per azioni successive. Ma l’oro no. Delusione fra chi aveva investito nell’impresa: addirittura si accusò Raleigh di averlo trovato ma di volerlo tenere per sé. Raleigh reagì pubblicando un resoconto, forse leggermente esagerato, che ebbe un gran successo editoriale. Nel 1596 mandò in Guiana una nuova spedizione guidata dal capitano Lawrence Keymis, che già aveva partecipato alla prima: grandi progressi nella conoscenza dei luoghi, semplici e vaghi accenni a un grande lago sulle cui rive si supponeva sorgesse la città dell’oro. Neanche il tentativo di Don Antonio de Berrio, che lo stesso anno aveva inviato centinaia di uomini nella giungla, ebbe successo: senza trovare nulla, furono quasi totalmente massacrati dai nativi amici di Raleigh.
Raleigh non aveva partecipato alla seconda spedizione in Guiana: era impegnato su un altro fronte. Poiché gli spagnoli progettavano un nuovo attacco all’Inghilterra, era necessaria un’azione preventiva. Salpò da Plymouth, il 13 giugno 1596, una flotta di ben 150 navi inglesi e olandesi con quasi settemila marinai. A bordo un ugual numero di soldati, divisi in quattro squadre una delle quali rispondeva agli ordini di Sir Walter.
Cadice era una delle principali basi della flotta spagnola. Vi giunsero il 29 del mese alle due di notte; nel pomeriggio avevano il controllo della città e iniziava già il saccheggio; Fort San Felipe cadde il giorno dopo. Se ne andarono solo il 14 luglio, non prima di aver dato tutto alle fiamme. Stessa sorte, nei giorni successivi, toccò al porto di Faro, in Portogallo.
Il maltempo aveva loro impedito imprese ancor più ambiziose, cosa che capitava spesso a quei tempi e con quel genere di vascelli. Non avevano trovato in porto nemmeno una delle navi colme di tesori provenienti dall’America: quelle erano ancora in viaggio. Ma con la città in rovina, la distruzione di tante navi comprese le trentadue incendiate dagli Spagnoli perché non cadessero in loro mano, arrecarono alla corona di Spagna un danno economico enorme. Il temuto assalto all’Inghilterra era quantomeno rinviato.
Per i servigi prestati, era anche rimasto ferito, Walter Raleigh ottenne il perdono reale e la riammissione a corte. Ma Bess restò esclusa per tutta la vita.
Nel giugno dell’anno successivo, col grado di contrammiraglio, Raleigh partì con una nuova flotta anglo-olandese per quello che doveva essere il colpo di grazia alla Spagna, il completamento del lavoro fatto a Cadice. Un micidiale attacco a un’altra base navale e la cattura, alle Azzorre, dell’intera flotta di ritorno dall’America. Ma stavolta le cose andarono peggio, molto peggio. Fu l’ultima delle grandi battaglie navali di quel conflitto.
Sir Walter riprese la vita a Corte, non mancò le sedute in Parlamento, divenne nel 1600 governatore dell’isola di Jersey. Nei limiti del possibile aveva dedicato tempo ed energie anche ai possedimenti in Irlanda; ma l’ostilità della popolazione locale, i lunghi periodi passati altrove, la dubbia onestà di chi avrebbe dovuto curare i suoi interessi, le pessime condizioni meteorologiche degli ultimi anni avevano reso troppo impegnativa quella immensa proprietà. Del resto, nell’avventura americana come pure nel suo dispendioso stile di vita, aveva riversato una parte cospicua della sua fortuna. Vendere poteva essere la soluzione. Non fece un grande affare, ma si tolse perlomeno quel pensiero.
La colonia in Virginia non la dimenticava, e non solo per un fatto sentimentale: finché non si dimostrava che erano tutti morti lui manteneva i diritti legali su quei territori. Già nel 1595, di ritorno dalla Guiana, aveva tentato di toccare Roanoke ma le solite condizioni proibitive del mare lo avevano impedito. Nel 1602 allestì due navi di sua proprietà con marinai fidati e ben pagati, proprio per evitare distrazioni piratesche e i relativi rischi. Oltre alla ricerca di notizie c’era anche l’intento di raccogliere sulla costa americana le radici del sassofrasso che laggiù cresceva in abbondanza, e che a Londra erano molto richieste. Tornarono con le radici, ma senza notizie. Stesso risultato per una spedizione successiva finita male, nel 1603. Solo più tardi, fra i nativi, si sarebbero raccolte vaghe voci su europei stanziati in alcuni punti della costa, forse quelli di Roanoke; ma nulla di più. Li stanno ancora cercando, con campagne archeologiche che fino ad oggi sono state infruttuose.
Elizabeth morì il 24 Marzo 1603. Tre giorni dopo James VI di Scozia iniziò il suo lungo viaggio di avvicinamento a Londra incontrando strada facendo i notabili locali. Sir Walter lo raggiunse il 25 Aprile a Northampton. Appena fu al suo cospetto l’erede designato lo apostrofò con una frase tagliente e beffarda, un sarcastico gioco di parole che suonava: “Rawley, Rawley, I have heard but rawly of thee!” Ossia, al di fuori dal calembour: Raleigh, Raleigh ho sentito parlare di te, ma crudamente!”
Perché lo aveva trattato in quel modo? La vita a Corte aveva le sue regole. Fra i cortigiani di alto livello la lotta era senza quartiere, forse più feroce che in guerra. Da anni i peggiori nemici di Sir Walter, gente che lo temeva o che intendeva salire di grado a sue spese, avevano stabilito contatti con il più titolato dei pretendenti. Lo avevano messo in guardia contro quel gentiluomo che, oltre a osteggiare la sua candidatura, era pure “ateo, indiscreto, incompetente”: travisando così gli aspetti peggiori del suo carattere, omettevano invece tutte quelle doti che Elizabeth aveva tanto apprezzato. Prima fra tutte, il grande attaccamento all’Inghilterra.
Il 28 Aprile, a regina morta da più d’un mese, si celebrò il suo funerale. Un migliaio di persone componeva un corteo che si snodava per diverse miglia. Punto focale il carro reale con il feretro, scortato dagli uomini della Guardia con Raleigh in testa, cappa e cappello neri, alabarde rivolte all’ingiù in segno di lutto.
A Maggio James I d’Inghilterra revocò molte delle rendite e delle cariche di Raleigh assegnandogli una modesta cifra a titolo di compensazione. Per primo era passato in altre mani il prestigioso ruolo di capitano della guardia. Anche i diritti sulla Virginia erano perduti. Ferito e turbato ma ancora ignaro della mentalità e dei disegni del re, per riguadagnarne la stima gli inviò una memoria nella quale proponeva nuovi attacchi contro la Spagna. Idee che rispecchiavano tutta la sua vita ma cozzavano violentemente con le mire e strategie del nuovo monarca. Per togliersi di torno il disturbatore, questi gli intimò di liberare in quindici giorni il grande palazzo sul Tamigi che la defunta regina gli aveva concesso. Raleigh sapeva reagire alla sfortuna: cercò in tanti modi di ribaltare la situazione, ma questa era già compromessa.
Il suo principale nemico a Corte Sir Robert Cecil, segretario di Stato sotto Elizabeth, si era dimostrato molto più accorto e “politico” di lui. Mentre lui criticava il futuro re, Sir Robert aveva già stabilito con quello un segreto rapporto epistolare riuscendo non solo a mettere Raleigh e altri in cattiva luce ma anche a studiare l’uomo, i suoi pensieri i suoi propositi. Aveva così potuto modificare accortamente le sue opinioni in modo da farle aderire a quelle del sovrano scozzese e intanto, a Londra, lavorava per rafforzarne la candidatura. Così, a suo tempo, James l’aveva confermato nella sua carica elevandolo a Pari d’Inghilterra.
Purtroppo per Raleigh, a moltiplicare l’incompatibilità con James c’erano aspetti che andavano oltre la maldicenza o la diversità di visioni e strategie. Lui autorevole e volitivo uomo d’azione, l’altro introverso e schivo fino alla timidezza. Lui impetuoso e istintivo, l’altro pignolo pedante e riflessivo. Lui votato all’impresa al rischio all’avventura, l’altro cauto ansioso e aggrappato alle sue sicurezze. Entrambi a loro modo pieni di sé, entrambi permalosi. Nemmeno in un campo che li accomunava, la cultura la prosa e la composizione poetica, avevano punti di contatto. James, il massimo detentore del potere, di fronte a quel fiero pirata che era anche poeta e non si impegnava troppo a blandirlo, percepiva forse un senso di inadeguatezza e questo era per lui insopportabile. Ulteriore motivo di scontro, quel corredo di pipe e tabacco che Raleigh adorava e portava dappertutto, e che il re cordialmente detestava. Walter non capì, o non volle capire, che in quell’asimmetrico confronto era necessariamente lui la parte perdente.
Il 20 luglio Sir Walter fu arrestato e tradotto, un’altra volta, alla Torre di Londra dove una settimana dopo tentò il suicido. L’accusa era di aver complottato con la Spagna per deporre il sovrano e portare sul trono un’altra pretendente. Ma forse il complotto era contro Raleigh. Paradossale l’imputazione di essere in combutta con gli Spagnoli: quelli che lui aveva avversato tutta la vita, e che a loro volta lo detestavano più del diavolo! Il processo si svolse il 17 novembre al castello di Winchester. L’accusatore così apostrofò l’accusato: Thou art a monster, thou hast an English face, but a Spanish heart! Sei un mostro, hai una faccia da inglese ma un cuore da spagnolo! Bastarono quindici minuti per condannarlo a essere impiccato, sventrato, squartato e decapitato: la pena rituale riservata ai traditori. Il re fermò la mano del boia solo il 13 dicembre 1603, giorno previsto per l’esecuzione, e lo rispedì alla Torre.
Le modalità di reclusione non erano uguali per tutti: un gentiluomo come Raleigh, se pure in disgrazia, se pure sotto stretta sorveglianza, era trattato bene. Un grande appartamento che ospitava anche la sua famiglia, le sue cose, i suoi libri; personale di servizio; possibilità di vedere persone, di inviare e ricevere corrispondenza. Nel 1605 la spaziosa prigione vide nascere Carew, il terzo figlio di Walter e Bess. Tutto ciò non bastava a rendere gradevole la situazione: per non deprimersi si buttò sui libri, cercò modi per ristabilire relazioni e, nei limiti del possibile, seguire gli affari. Allontanato dalle sue grandi imprese, ne iniziò una letteraria mettendo mano a una impegnativa storia generale del mondo da dedicare a Henry, figlio maggiore del re che ascoltava i suoi insegnamenti in materia di costruzione navale e battaglie sul mare, con il quale aveva instaurato un rapporto di affetto. Anche la regina lo guardava con simpatia mentre il re, circondato da nemici di Sir Walter, continuava a detestarlo. Raleigh trovò anche il tempo per esperienti alchemici e lo sviluppo di metodi per la cura del tabacco. Scriveva versi e lettere, tante lettere. Lo spazioso appartamento, però, era freddo e umido, e coll’andare degli anni la salute del recluso ne risentì.
Nel 1611 vide la luce la prima parte della sua opera storica, ma il re la giudicò troppo impertinente nel censurare i prìncipi e la censurò. Disponendo che fosse ritirata dal mercato, ne fece un successo editoriale quando, due anni dopo, uscì la nuova edizione. Nel 1612 un grande dolore: morì Henry, che aveva tentato invano di farlo scarcerare, e Raleigh rinunciò a completare quell’opera storica a lui dedicata.
Nello stesso anno però, prima ancora di Henry, era morto il suo peggior nemico, Sir Robert Cecil. Intanto, a Corte, l’affermarsi di George Villiers duca di Buckingham quale nuovo favorito metteva in ombra un altro suo nemico potente: Robert Carr Conte di Somerset il quale, poco dopo, cadde in disgrazia essendo coinvolto in un omicidio. Una luce di speranza si accendeva per Sir Walter, il quale riuscì a stabilire buoni rapporti con Villiers e anche con il nuovo Segretario di Stato Sir Ralph Winwood: la volubile giostra degli intrighi volgeva in suo favore. Come primo risultato, il regime di sorveglianza divenne meno stretto: Ora doveva raddoppiare gli sforzi per essere rilasciato. Visto che le finanze del re erano in difficoltà, prospettargli un’impresa capace di arricchirlo poteva essere un ottimo argomento.
In tutti quegli anni Sir Walter aveva mantenuto i contatti con la Guiana finanziando periodiche missioni di suoi fiduciari, rinsaldando i rapporti di amicizia con le popolazioni, indagando sull’ubicazione della miniera. Eldorado, la città dell’oro, era solo una favola; ma l’ipotesi di giacimenti non lontano dall’Orinoco era sempre più credibile. Quante volte aveva riflettuto su come condurre una nuova avventura, quante volte aveva caldeggiato l’impresa ai suoi corrispondenti. Ora che uno spiraglio si era aperto, prese carta e penna e scrisse una petizione rivolta alla regina e a Sir Ralph. In sintesi, proponeva uno stanziamento stabile in Guiana mirato allo sfruttamento delle ricche risorse precisando che lui stesso, insieme ad altri, avrebbe finanziato l’impresa. Nessun rischio per il sovrano, al quale sarebbe andato un quinto dei lingotti.
“Ma questo è un attacco agli interessi del mio re”, protestò l’ambasciatore spagnolo, e James già voleva bloccare tutto; ma la pressione del partito pro-Raleigh, il quale aveva anche elargito grosse somme a due parenti del favorito, prevalse. Informato del buon esito, Raleigh scrisse una lettera di riconoscenza e ringraziamento al favorito e tre giorni dopo, il 19 marzo 1616, uscì di prigione. Non era la sua prima uscita dalla Torre, ma stavolta aveva dovuto aspettare quasi 13 anni. Le sue espressioni di gioia, le sue riflessioni sulle straordinarie vie della provvidenza, furono riferite al re che soggiunse: “Raleigh potrebbe morire in quell'inganno”.
In quegli stessi giorni, ancor prima di essere liberato, aveva scritto nuovamente a Villiers, insistendo sulla Guiana ma soprattutto auspicando un superamento delle incomprensioni e un nuovo inizio fra lui e quel re al quale dichiarava la sua assoluta fedeltà: “Morire per il re e non ad opera del re è la mia maggiore ambizione”. Come risposta arrivò dal riluttante sovrano il sì definitivo.
I preparativi, subito iniziati con la vendita di alcune proprietà di Raleigh, provocarono la violenta reazione dell’ambasciatore spagnolo: l’operazione era piratesca e ostile, capace di minacciare seriamente la pace! Raleigh rispose che intendeva semplicemente veleggiare verso la Guiana, terra appartenente all’Inghilterra sia per diritto di scoperta che per consenso dei nativi. Nessuna intenzione aggressiva verso navi o territori spagnoli! L’ambasciatore assicurò che se l’intenzione era solo quella di stabilirsi in Guiana e sfruttare miniere, non c’era obiezione alcuna. In quanto al re, mentre i preparativi andavano avanti pose solo due condizioni tassative. La prima: fargli avere una relazione scritta con tutti i dettagli della spedizione. La seconda: evitare qualsiasi scontro con gli Spagnoli con i quali, nel 1604, aveva siglato l’accordo di pace.
Quando il 28 marzo 1617 la flotta di 15 navi al suo comando iniziò a discendere il Tamigi, l’ammiraglio Raleigh ebbe la sensazione di ricominciare a vivere, che fosse quello il momento vero della sua liberazione.
Arrivarono il 12 novembre all’estuario del fiume Cayenne, in Guiana. Avevano dovuto ripararsi per cinque mesi nel porto di Cork, Irlanda, causa tempeste e venti contrari. Durante la traversata, sulla nave dell’Ammiraglio si era diffusa una malattia, una sorta di morbillo che aveva provocato molte vittime. Raleigh, anch’egli infettato, era riuscito a sopravvivere ma era ancora malato e senza forze. Però sereno, rassicurato dall’ottima accoglienza dei nativi, sicuro di poter concludere bene l’impresa sempre che -pensava- gli Spagnoli non avessero preso troppe contromisure, visto che almeno a grandi linee erano informati. Ma, nelle condizioni in cui era, dovette restare a terra quando, il 10 Dicembre, cinque navi comandate da quel Lawrence Keymis che già aveva partecipato alle precedenti spedizioni partirono verso l’Orinoco. Aveva dato istruzioni precise sul luogo dove cercare, le cose da fare, la necessità di tenersi per quanto possibile lontani dagli Spagnoli. Salpate le navi, su una di esse c’era anche suo figlio Wat, non gli restò che attendere. Dopo un mese seppe dai nativi di uno scontro armato sul fiume. Altre due settimane e arrivò una nave dall’altra base che gli Inglesi avevano stabilito a punta De Gallo sull’isola di Trinidad. Lì era approdato Keymis con tre sole navi, e ora gli mandava una relazione scritta sull’accaduto.
Risalendo l’Orinoco avevano avvistato l’abitato di Santo Thomé, di cui si ignorava l’esistenza. Era stato fondato dagli Spagnoli due anni dopo che gli Inglesi della prima spedizione se ne erano andati nel 1595. Per evitare problemi le navi avevano raggiunto la riva in un punto defilato, sbarcando un contingente che si era attendato per la notte. L’indomani avrebbero dovuto inoltrarsi in direzione del luogo dove, secondo le indicazioni di Raleigh, andava cercata la miniera. Ma erano stati assaliti nel sonno con gravi perdite. Avevano reagito e inseguito. Si erano visti costretti ad attaccare l’abitato sul fiume e qui Wat, il figlio dell’ammiraglio, era caduto alla testa dei suoi uomini. In alcune costruzioni del villaggio preso e distrutto alla fine di una lunga schermaglia si era trovato anche dell’oro. Per portare a compimento la missione Keymis si era messo nuovamente in marcia con un piccolo drappello verso quel luogo indicato sulla carta, ma anche stavolta gli Spagnoli li avevano affrontati e bloccati. In quella maledetta boscaglia quasi impenetrabile c’erano Spagnoli dappertutto! Non potendo nemmeno attaccarli, l’unica soluzione era stata battere in ritirata. Questa, per sommi capi, la versione di Keymis; ne esistono altre di fonte inglese; quelle spagnole, ovviamente, presentano i fatti in maniera diversa.
Si può immaginare lo stato d’animo di Raleigh di fronte allo scritto di quel compagno fedele di tante battaglie di cui ora dubitava, sconvolto per la perdita del figlio, per una missione che andava a fondo come quelle due navi inghiottite dalle acque dell’Orinoco. Per le subdole affermazioni e garanzie dell’ambasciatore spagnolo; ma forse non considerava quanti danni e dolori aveva inferto lui alla Spagna.
E il comportamento del re? Che avesse passato agli Spagnoli il piano dettagliato dell’impresa prima ancora che lui partisse era ormai certo, ne aveva le prove, ma perché l’aveva fatto? Per danneggiarlo, ferendo così anche l’Inghilterra o semplicemente per non aver saputo resistere alle insistenze dell’ambasciatore?
A quel punto la sua salute malferma, lo scoramento degli uomini, la presenza asfissiante di quegli Spagnoli che aveva l’ordine di evitare non gli lasciavano troppe scelte. Sapeva bene che tornare a casa a mani vuote con l’accusa di disobbedienza poteva essere la sua fine, ma questa era la sua volontà. Tornare e porre domande. Chiarire una volta per tutte la sua buona fede e la logica perversa di quanto era accaduto.
Riunita la flotta a Punta de Gallo incontrò Keymis, per il quale non mostrò alcuna comprensione. E Keymis si uccise. Ci furono discussioni con i comandanti sull’opportunità di tornare subito o di restare in mare più a lungo. Sul suo vascello, che lui stesso aveva fatto costruire, che aveva voluto chiamare Destiny, furono sul punto di ammutinarsi per impedire il ritorno. Ma alla fine, a metà giugno 1618, la Destiny entrò in porto a Plymouth con un carico di tabacco.
La notizia del disastro in Guiana era circolata a Londra ben prima del suo arrivo. L’ambasciatore spagnolo, affettando indignazione, aveva urlato Piratas! Piratas! Piratas! al cospetto del re. E James, più preoccupato di non urtare gli Spagnoli che di accertare una verità per tanti versi scomoda, aveva pubblicato poco prima che la nave arrivasse un proclama indignato contro i colpevoli, annunciando una durissima punizione.
Raleigh ne seppe appena arrivato. Sistemò alcuni affari e scrisse al sovrano una appassionata, non diplomatica, lettera di autodifesa. Poi si avviò verso Londra ma quasi subito lo fermò Sir Lewis Stukley, incaricato di arrestarlo e portarlo nella capitale. Ci andarono senza fretta né troppi controlli, e Raleigh faceva di tutto per rallentare. A Londra, il 7 Agosto, non lo portarono in prigione ma a casa di sua moglie… Aiutato da Stukley e altri riuscì a imbarcarsi su un vascello che l’avrebbe sbarcato in Francia… Ma era tutto un inganno! Bloccato e stavolta seriamente arrestato, il giorno 9 varcò il portone della Torre di Londra.
Là dentro restò quasi tre mesi: perché così tanto, se la sua sorte era segnata? Problemi legali. In quei 90 giorni scarsi fecero di tutto per trovare qualche degno capo d’accusa. Interrogarono i reduci dalla Guiana, gli amici, la moglie, i servitori. Intercettarono la corrispondenza. Lo sottoposero ai quesiti di una commissione d’indagine. Gli affiancarono una specie di guardiano-confidente che riferisse di ogni sua minima contraddizione, che facendogli balenare qualche speranza lo convincesse a “confessare”. Ma Sir Walter, benché spesso febbricitante, manteneva lucidità e combattività. Anche se le sofferenze avevano affinato il suo carattere, attenuandone gli aspetti più aspri.
Tutto concorreva a dimostrare la sua innocenza, le ambiguità del re e quelle degli Spagnoli. Unico possibile reato, la tentata fuga. Dalla vecchia condanna del 1603 era passato troppo tempo per ritenerla ancora eseguibile. Più d’un alto personaggio, a partire dalla regina, provò a intercedere per lui, che indirizzò anche un’ultima supplica al re; ma questi era chiuso nel suo chiuso mondo, prigioniero del legame con la Spagna e di una rigida mentalità da sovrano assoluto. Gli Spagnoli premevano. A metà ottobre venne comunicato a Raleigh che la sua esecuzione era prossima. Quello che era stato un rude guerriero, un abile animale di Corte, sembrava ora quasi un santo, un filosofo che, sereno, accettava il suo destino. La sera del 27 ottobre un lungo intenso incontro con Bess; il giovane figlio preferì non vederlo perché non si impressionasse. Il 28 ottobre lo tirarono giù dal letto per trascinarlo in tribunale, dove gli chiesero se avesse obiezioni alla condanna. Lui iniziò ad argomentare, e sapeva farlo bene, ma lo zittirono. Allora si appellò alla generosità del re, ma non bastò. Sentenziando che non avesse prodotto un’obiezione valida, validarono formalmente quel che da tempo era stato deciso: la sua vita sarebbe cessata l’indomani, alle nove del mattino.
Impiegò le ore rimanenti a comporre versi, a scrivere lettere, a sistemare le ultime cose. La mattina del 29 ottobre 1618, ricevuto il conforto religioso, fece una ricca colazione, godette un’ultima volta della sua pipa, sorseggiò una tazza di sherry, si ritirò per vestirsi adeguatamente come aveva sempre fatto.
Le modalità dell’esecuzione erano cambiate rispetto alla precedente condanna: si sarebbero “limitati” a decapitarlo. Il patibolo stava davanti al Parlamento. Grande folla. Il condannato avanzò a fatica, gli occhi lucidi di febbre, grande calma e dignità, salutando con dolcezza i tanti suoi conoscenti. Qualcuno prese la parola, poi toccò a lui: seduto sul bordo del palco, attorniato dagli amici, ribadì con flebile voce le sue ragioni. Salito sul palco rifiutò di essere bendato. Si avvicinò all’ascia e, saggiando col pollice la perfezione del filo, soggiunse: “È una medicina affilata, ma capace di curare ogni malanno.” Poi poggiò la testa sul ceppo e invitò a procedere. A cose fatte il boia afferrò la testa, la sollevò, con lento movimento circolare del braccio teso la mostrò a tutti. Ma non volle pronunciare le parole di rito: “questa è la testa di un traditore!”
Gentiluomo, soldato, navigatore, avventuriero, marito e padre, gaudente, cortigiano, politico, imprenditore, pirata, storico, poeta, Sir Walter Raleigh fu uomo come tutti: con i suoi pregi e i suoi difetti. Ma questi assumevano in lui una dimensione gigante, quasi eccessiva, la stessa di tanti aspetti ed episodi della sua vita. Situazione che lo accomuna ai grandi uomini, sui quali è più facile esprimere un giudizio se si guarda a ciò che hanno lasciato dopo di sé.
A quattrocento anni dalla morte, Walter Raleigh è ancora vivo e vegeto, una specie di mito specie in USA e Gran Bretagna. Basti vedere quanti libri anche recenti, quante fonti internet esistono su di lui e le sue imprese.
Quei tentativi in Virginia dall’esito deludente furono però il seme della successiva espansione coloniale dell’Inghilterra. Assieme agli altri privateers, migliorando la tecnologia navale e i metodi di navigazione, Sir Walter pose le basi del dominio britannico sui mari. Nemmeno i tentativi in Guiana vanno sottovalutati, né archiviati sotto la voce “inseguimento di un sogno”. Non si saprà mai se la miniera cercata esisteva realmente, si sa però che nella seconda metà dell’Ottocento un ricco filone d’oro venne sfruttato nel sito di El Callao, poche miglia a sud dell’Orinoco e che oggi, nello stesso bacino fluviale, sono state individuate riserve di diamanti, oro e altri importanti minerali.
La History of the World non è una semplice elencazione di fatti ma un saggio di notevole spessore apprezzato da gente come John Milton e John Locke, con implicazioni politiche che avevano irritato il re, il quale a suo modo aveva ragione: assieme ad altre opere dello stesso autore, la “Storia” influenzò non poco i politici inglesi di allora alimentando l’avversione del Parlamento verso la dinastia Tudor.
La diffusione di pipe e tabacco indotta da Sir Walter non fu solo una questione di fumo: fu fondamentale nell’innescare un importante fenomeno di costume con notevoli implicazioni economiche in tutta Europa.
Sulla sua produzione poetica, ben inserita fra quelle del rinascimento elisabettiano, vale la pena di citare un brano del critico americano Charles Frederick Tucker Brooke.
I versi di Walter Raleigh sono come era la sua mente: “feroci rapidi irrequieti come un uccello da preda… molto toccanti, spesso amari e provocatori, sapendo più di ardente intuizione che di meditazione ordinata. Sono ricchi di epigrammi e molto intelligenti nei concetti, hanno un sapore che li rende indimenticabili”.