Chissà cosa pensava quel frate francescano camminando incessantemente per le vie di Angoulême o nelle campagne intorno. Era nato nel 1504 da padre non ricco, il quale lavorava però (si crede) per i La Rochefoucauld il cui sontuoso castello sorgeva a sei leghe dalla città. Grazie al loro appoggio André aveva avuto un minimo di istruzione manifestando intelligenza e tanta curiosità; ma faticava a immaginare un suo futuro: la carriera militare non lo attraeva, l’idea di un lavoro qualsiasi per tutta la vita lo metteva in ansia… Poi, da buon cristiano pragmatico qual era, aveva capito che per chi aveva poche sostanze, specie nei momenti difficili che la Francia e la sua città stavano vivendo, quella religiosa poteva essere la strada giusta: così qualche anno prima, vuoi per vocazione vuoi per desiderio di stabilità, era entrato nel convento dei Cordeliers di Angoulême. Non gli dispiaceva quella vita: nel rispetto della Regola, aveva la libertà di spostarsi nei dintorni e di immergersi in libri d’ogni genere, in diverse lingue, vive e morte. Ma proprio dai libri gli giungevano l’eco e i richiami del vasto mondo. Forse a questo stava pensando quel giorno frate André Thevet. E non sapeva, non poteva sapere, che proprio in quel giorno del 1530, in un’altra città della Francia, nasceva qualcuno, un quidam, che parecchi anni più tardi gli avrebbe dato un dispiacere.
Il nuovo nato era figlio di un notaio di Nîmes: professionista serio, stimatissimo e di nobili principî ma finanziariamente non solido, anche a causa di un vecchio investimento andato male. La famiglia accolse con gioia il terzogenito, ma era un’altra bocca da sfamare; e altre se ne sarebbero aggiunte… Nonostante le difficoltà il giovane Jean Nicot fu messo a studiare nel prestigioso Collège des arts de Nîmes, e lì si distinse in studi letterari scientifici e filosofici guadagnandosi l’ammirazione e l’appoggio dei docenti e dei dirigenti dell’istituto; la precaria situazione famigliare gli imponeva di coltivare il senso del risparmio e di pensare precocemente al suo futuro.
André Thevet non era più al convento. Nel 1533 l’avevano mandato a studiare teologia all’Università di Poitiers; sei anni più tardi, col permesso dei superiori, era a Parigi, frequentando anche ambienti intellettuali.
L’anno seguente è da qualche parte sull’Oceano, sul vascello del navigatore Guillaume Le Testu. Nel 1541 dovrebbe imbarcarsi a Lisbona per le Molucche, ma si ammala. Allora va in Italia. Tornato in patria fa per un biennio il segretario di Georges II d'Amboise arcivescovo di Rouen: si perde nella sua ricca biblioteca, incontra importanti protagonisti della cultura. In seguito alterna viaggi in Italia, specie al Nord, a brevi ritorni in una Francia scossa dalle dispute religiose; si spinge fino alla costa africana di Biserta. Fra il 1548 e il 1549 è fermo a Roma, affascinato dai tanti scavi archeologici, e assiste talvolta a importanti scoperte nei giardini dei grandi palazzi.
Come poteva un povero francescano permettersi tutto ciò? Da un lato la sua sfrenata disarmante curiosità, i suoi molteplici interessi, la sua cordialità aggiunti al fatto di essere un frate agganciavano tante persone alcune delle quali lo aiutavano. Dall’altro il Governo francese, attivamente impegnato proprio in Italia in una endemica guerra con gli spagnoli, poteva aver interesse a facilitare le peregrinazioni laggiù di un francescano iperattivo, socievole, curioso e pronto a riferire. All’epoca chi indossava il saio o la tonaca aveva le porte aperte dappertutto: per questa ragione erano parecchi i religiosi utilizzati dalla Francia come informatori.
Nella primavera del 1549 Thevet saluta gli illustri compagni di scorribande culturali e si avvia verso la Francia carico di ricordi, appunti, schizzi, piccoli cimeli antichi; ma sulla via del ritorno incontra un potente e stravagante personaggio: l’arcivescovo Jean de Lorraine, noto protettore e finanziatore di artisti. Gli racconta dei suoi viaggi, dei suoi interessi, gli mostra i cimeli, e l’arcivescovo si entusiasma, gli propone di intraprendere un grande viaggio di studio a sue spese nel Mediterraneo orientale.
Jean Nicot, intanto, è a Tolosa a studiare diritto. Ma non ha abbandonato gli interessi e i contatti coltivati fin dai tempi del Collège des arts: oltre che gli studi giuridici ama quelli storici, ha una predilezione per il lessico latino, greco, francese. Fa ottime conoscenze, conquista la stima del giurista tolosano Jean de Bertrand. Diventa dottore in legge e fa l’avvocato, ma anche la passione per le lettere e le arti gli procura occasioni di lavoro: collaborazioni nella redazione di libri con importanti personaggi della cultura ai quali è legato da sentimenti di reciproca stima e da una consuetudine di rapporti epistolari. Appena gli è possibile dirotta parte dei guadagni verso la sua disastrata famiglia.
Si era ormai delineato il suo carattere: quello di persona seria e preparata, affidabile, scrupolosa, controllata ma sensibile nei confronti del prossimo, dotata di mitezza, fermezza, tenacia, capacità di mediare.
Ma torniamo al 1549: dopo qualche esitazione, André Thevet ha accettato la proposta dell’arcivescovo de Lorraine e nel mese di giugno, ascoltata la messa in San Marco, parte da Venezia. Traversata elettrizzante con tanto di assalto di una nave corsara alla quale riescono a sfuggire. Poi Istanbul, anzi: Costantinopoli. Seguono la Grecia, con tanto di Partenone trasformato in chiesa, Rodi con la memoria del colosso, Creta, Alessandria d’Egitto, il Cairo, le piramidi. Aggregandosi a una carovana attraversa il deserto fino alla Palestina, i luoghi santi. Sempre via terra si spinge fino ad Antiochia dove, 1551, si imbarca: Malta, Corsica, Marsiglia, Parigi. Nella capitale incontra il navigatore Guillaume Le Testu che lo convince ad andare con lui in Argentina… Tornato nel 1552, è in Spagna, poi a Parigi. Carico di ricordi, appunti, cimeli, stabilisce che è finita l’epoca dei viaggi; acquista libri e manoscritti ponendo le basi di una ricca biblioteca; con l’aiuto dei La Rochefoucauld si presenta al cospetto del re Enrico II di Valois il quale, sedotto dai suoi racconti e dai suoi doni, lo nomina predicatore a Corte.
Verso la fine del 1553, o l’inizio del 1554, giunge a Parigi anche Jean Nicot. Alla Corte di Francia lo ha chiamato quel Jean de Bertrand incontrato a Tolosa e ora custode dei sigilli del re, una sorta di ministro della giustizia. Alle sue dipendenze Nicot inizia a svolgere lavori di cancelleria. Prende confidenza con l’ambiente, assimila e discute leggi e ordinanze, segue gli iter della loro formulazione, interloquisce con diplomatici, avvocati, consulenti, amministratori. Si dà molto da fare ma con prudenza competenza e discrezione, introducendosi pian piano nelle faccende del re, il quale finisce per nominarlo suo segretario privato. In questa veste entra in rapporti con l’entourage più stretto del sovrano, le persone che contano. Informato degli affari più delicati dello Stato, esprime pareri appropriati e apprezzati. Nel 1557 il re gli conferirà l’ulteriore importante carica di Maitre des Requetes: un ruolo prestigioso a confermare un’ascesa davvero fulminea, non basata su intrighi (tanti se ne ordivano a Corte) ma legata esclusivamente ai suoi meriti.
Parigi non era solo il centro dello Stato. Era quel paradiso culturale che Nicot aveva sempre sognato di raggiungere. Ora poteva vedere di persona quei tanti intellettuali conosciuti solo per lettera, entrare in contatto con i poeti umanisti della grande Pléiade, essere accolto nei più importanti salotti letterari. Nel tempo libero provava a scrivere poesie, ma il suo impegno più gratificante stava in quel rigoroso lavoro filologico editoriale cui teneva sopra ogni altra cosa.
Frequentando la Corte, intanto, anche Thevet faceva progressi: non tanto come predicatore quanto come autore o, forse, qualcos’altro. Era inevitabile che un viaggiatore così appassionato volesse poi raccontare le sue esperienze: e infatti lo faceva un po’ con tutti; ma da quella gran quantità di ricordi, cimeli, appunti, schizzi doveva pur scaturire qualcosa di più. Specie se l’itinerario era organico, coerente, ben identificato e identificabile come quello da lui percorso nel Mediterraneo orientale. L’idea l’aveva covata a poco a poco confrontandosi con tante persone, prendendo accordi con altre, elaborando intanto una formula, un canovaccio. Stampata nel 1554, la Cosmographie de Levant non era esattamente un libro di viaggi né una semplice cronaca di esperienze personali. Piuttosto, una compilazione. A quello che aveva visto e vissuto, Thevet accostava testi pubblicati da altri, contemporanei e più spesso antichi, insieme ad altre notizie che qualcuno gli aveva semplicemente riferito o che qualcun altro aveva messo per iscritto dietro suo preciso incarico… Affastellando il tutto senza troppi complimenti, puntando spesso al favoloso, all’insolito, al sorprendente, senza distinguere il fatto obiettivo dalla leggenda o dalla mistificazione, spargendo qua e là le sue edificanti riflessioni. Ma tutto ciò, nel Cinquecento, non sorprende. La mescolanza a volte sgangherata di quelle pagine (che peraltro si rifà a esempi più antichi) rispecchia l’ammirazione rinascimentale per i classici, la curiosità verso luoghi e usanze lontani innescata dalle grandi scoperte geografiche, l’ansia di assemblare un’informazione totale indiscutibile ridondante e definitiva. Ai testi si aggiungevano le immagini: silografie tratte da disegni di Thevet o raffiguranti i suoi cimeli. La Cosmographie non era opera per dotti ma guardava a un pubblico più vasto, compatibilmente con l’epoca. Lettori avidi di emozioni, rapiti da quelle stampe ancora poco comuni nei volumi dell’epoca. Fu un successo editoriale. Ma al momento dell’uscita André Thevet aveva già altro in mente: l’epoca dei suoi viaggi non era del tutto finita. “Il viaggio è essenziale per il sogno” aveva affermato San Francesco; quello che si stava preparando aveva motivazioni ben diverse.
Da qualche decennio le coste del Brasile erano frequentate da navi francesi: commercianti di Dieppe, Rouen, Le Havre vi avevano stabilito una buona rete di contatti trattando direttamente con le tribù native l’acquisto di legni pregiati, spezie, metalli preziosi; ma Spagnoli e Portoghesi non gradivano, e reagivano. Per questo si era deciso che una spedizione affidata al Cavaliere di Malta Nicolas Durand de Villegagnon stabilisse laggiù una base fortificata: una colonia oltremare nella quale, si auspicava, sarebbe stato possibile (era così difficile in Francia) anche la pacifica convivenza fra cattolici e protestanti. André Thevet partiva con il ruolo di cappellano. Dopo lunghi preparativi le navi salparono nel maggio 1555 ma furono ricacciate indietro da una tempesta. Altro tempo per le riparazioni, poi una disastrosa traversata lunga quattro mesi, finalmente l’approdo a una piccola isola che gli indigeni chiamavano Serigipe, nella baia di Guanabara, oggi di Rio de Janeiro. Soldati e coloni si misero a edificare il forte e il villaggio; Thevet vagava nei dintorni, tentando di convertire qualche indigeno ma soprattutto osservando, annotando, disegnando. Ma dopo appena dieci settimane salì su una nave che tornava in Francia: vuoi per una malattia, vuoi perché il carattere autoritario del Cavaliere di Malta, le dispute religiose, le tante difficoltà già minacciavano il buon risultato della missione.
Tornato a Parigi si mise al lavoro. Anche il nuovo libro sarebbe stato una compilazione: “cose singolari” da lui viste e vissute in quelle dieci settimane o a lui riferite da più o meno affidabili testimoni, mescolate a cronache varie di varia fonte e (grazie all’opera di un dotto scrittore-ombra) a nutrite citazioni dai classici. Se i testi latini e greci presenti nella Cosmographie de Levant erano finalizzati a puntellare la credibilità di altre parti del racconto, in questo caso l’operazione era più ardita e consisteva nel trovare mille paralleli fra il mondo antico di Erodoto, Plinio, Vitruvio e i costumi (a volte inquietanti) degli indios Tupinamba; ma anche e soprattutto quelli di altre popolazioni americane. Tante diverse parti di quel continente, con tutte le possibili curiosità, erano infatti aggiunte nelle pagine della nuova opera: il metodo di lavoro di Thevet consisteva nell’“essere stato” anche dove non era mai stato.
Le odi composte da due dei più illustri poeti della Pléiade introducevano il tutto, una buona quantità di mirabolanti illustrazioni lo valorizzava. Atteso con impazienza da un pubblico assetato di novità e stranezze, Les Singularitez de France Antarctique fu dato alle stampe nel 1558.
All’inizio d’Aprile del 1559, firmando la pace di Cateau Cambrésis, Henri II di Valois abbandonava tutte le conquiste francesi in Italia ottenendo a molto parziale compenso l’integrazione alla Francia dei territori di Calais, Toul, Verdun e Metz. A suggello del trattato si decise che Elisabeth figlia di Henri avrebbe sposato il re di Spagna Felipe II, mentre Marguerite, sorella di Henri, avrebbe sposato il duca Emanuele Filiberto di Savoia. Ma la diplomazia matrimoniale non si fermava qui: il re di Francia desiderava anche le nozze fra sua figlia Marguerite e il re del Portogallo Sebastião I. In tal modo la Francia avrebbe stretto un legame con quel Paese di navigatori reso florido da un vastissimo impero coloniale, sottraendolo all’influenza della Spagna. Ma era una questione delicata: Marguerite aveva quasi sei anni, Sebastião un po’ più di cinque! L’ambasciatore allora a Lisbona non sembrava la persona giusta; le diverse fazioni a Corte erano già pronte alla lotta per accaparrarsi il posto. Il re decise di sparigliare, nominando nuovo ambasciatore alla Corte del Portogallo qualcuno che ambasciatore non era mai stato, ma che per le sue doti di competenza e equilibrio godeva della stima di tutti. Quell’uomo era Jean Nicot.
Furono giorni intensi, di continui incontri con il re, il quale voleva che il suo inviato (e questi altrettanto lo voleva) fosse perfettamente preparato su tutti gli aspetti (specie quelli riservati) della missione. Era maggio quando Nicot e il suo seguito giunsero a La Rochelle preparandosi all’imbarco, ma c’era un problema: il pirata inglese Henry Strangways, con alcuni vascelli armati, presidiava l’imbocco del porto. Tutti a vuoto i tentativi di trattare: quello era ben deciso a intercettare la nave in uscita prelevando tutti i bagagli. Mancando i mezzi per combatterlo, non rimaneva che la via di terra. Nicot era un giurista, un umanista. Nemmeno quelli del suo seguito amavano i disagi. Eppure si trovarono in situazioni quasi estreme; simili a quelle che Thevet aveva più volte sperimentato. Strade, tratturi, semplici sentieri al limite della percorribilità, l’altopiano spagnolo nella stagione calda, trascinando sui carri una gran quantità di materiali…
Raggiunta Valladolid, la capitale, si fermarono per qualche giorno, anche per recarsi in visita alla Corte di Castiglia. Durante il difficile cammino già avevano raccolto voci su una disgrazia occorsa in Francia, ora la notizia era certa. Henri II, appassionato di giostre equestri, ne aveva organizzata una a Parigi il 30 Giugno, e vi aveva partecipato di persona. Avendo già affrontato alcuni scontri, salito nuovamente in sella, si era lanciato contro l’avversario brandendo la sua lunga lancia di frassino. Al momento dell’impatto la lancia dell’altro si era spezzata e la punta del moncone era andata violentemente a infilarsi nell’elmo del re centrandogli il viso. Dieci giorni dopo, nonostante i disperati tentativi dei medici, Henri moriva all’età di quarant’anni. A Nicot e al suo seguito non restò che accettare le condoglianze della Corte di Castiglia e proseguire per Lisbona, dove giunsero a metà agosto; ma solo ai primi di settembre entrò nel vivo il lavoro dell’ambasciatore.
Sul Portogallo regnava un bambino. Reggente era la nonna, dona Catharina d’Asburgo, ma il cardinale Enrique suo cognato (e prozio del re) premeva per condizionarne le decisioni. Catharina era per l’indipendenza del Portogallo e vedeva di buon occhio il matrimonio con la francese; Enrique parteggiava per Felipe II e per la sua volontà di unire il Portogallo alla Spagna.
La serietà e i buoni modi di Nicot, la sintonia fra lui e la reggente scaturita dalle loro affinità culturali, consentirono da subito ottime relazioni a Corte: più d’una volta sembrò che i negoziati per le reali nozze fossero sulla buona strada; ma Felipe II, tramite i suoi intermediari, faceva ogni volta di tutto per farli fallire, talvolta coadiuvato dalle indecisioni di Caterina de’ Medici. La situazione in Francia, poi, non facilitava le cose: François II, figlio del defunto Henri, salito al trono a 15 anni, fu stroncato da una malattia dopo un anno e cinque mesi. Il successore Charles IX aveva solo 10 anni quando, il 5 dicembre 1560, venne il suo turno. Ad affiancare e sorreggere i due piccoli re in una situazione di crisi politica e religiosa c’era fortunatamente la madre, Caterina de’ Medici: donna di grande tempra, ma provata dalle continue schermaglie fra le diverse fazioni intorno a lei. In questo vespaio, con questi interlocutori si trovò l’ambasciatore il quale, oltre alla trattativa matrimoniale, doveva gestire in nome del suo Paese anche altri scottanti problemi. O forse erano proprio gli “altri problemi” quelli che davvero contavano, e le nozze una opportuna copertura.
Una difficoltà venne dalla colonia francese in Brasile: quella che Villegagnon aveva fondato e di cui Thevet aveva scritto (fra l’altro) nelle Singularitez. Dopo la partenza del francescano le cose si erano messe sempre peggio, ma l’insediamento in qualche modo resisteva; finché i Portoghesi non decisero di intervenire pesantemente, attaccando e distruggendo il forte nel marzo 1560. Fiere le rimostranze di Nicot a Lisbona, su istruzioni del suo sovrano, non appena si apprese la notizia, ma senza risultati: i governanti portoghesi sostenevano la legittimità della loro azione. Quelli francesi, alla fine, non vollero insistere su un tema che poteva pregiudicare una pace appena siglata, preferendo puntare sul resto delle trattative in corso.
Altro problema, più generale e sempre attuale, era legato ai traffici marittimi sui quali principalmente si basavano gli scambi. Nel Mediterraneo e nell’Atlantico erano endemici la pirateria e il contrabbando; ma ognuno degli Stati faceva ben poco per combattere tali comportamenti quando i colpevoli provenivano dai suoi porti. Era una sorta di guerra indiretta, non dichiarata. Forse, nello spirito di Chateau Chambrésis, si sarebbero dovute stabilire norme comuni a tutti e da tutti rispettate, e questa era la sollecitazione del giurista Nicot a portoghesi e francesi; ma alla buona volontà (o forse doppiezza) di alcuni si opponeva l’ostinazione di altri, interessati a lasciar le cose come stavano. Nicot comunque, nelle tante e spesso accese discussioni sul tema, si poneva in posizione di quasi terzietà cercando di considerare le ragioni di tutti e propiziando il dialogo, non dimenticando però gli interessi del suo Paese; e quando c’era da difendere un connazionale non si risparmiava. In particolare, su istruzioni del re, si adoperò per negoziare accordi relativi ad alcune specifiche tipologie di prodotti.
Preciso e accurato, grande e acuto osservatore, l’ambasciatore svolse anche funzioni di intelligence tenendo informati il re, Caterina e altri importanti personaggi di tutto quanto avveniva in Portogallo: dai fatti di Corte all’organizzazione dello Stato, dei commerci e delle colonie, agli aspetti tecnici e lessicali della cantieristica navale e della navigazione. Nel corso del suo incarico acquisì e inviò in patria libri e manoscritti che approfondivano questi argomenti.
Nicot rimaneva un umanista, anche a Lisbona. Compatibilmente con i gravosi impegni frequentò gli ambienti degli intellettuali, e ad alcuni di essi si legò; si possono annoverare fra i suoi amici il grande cartografo Lopo Homem, il letterato francese stabilitosi in Portogallo Jacques de Sigy, lo storico e diplomatico portoghese Damião de Góis oltre ad altri letterati e artisti locali.
Nel maggio del 1561 il capitano di un vascello portoghese si era reso colpevole di un grave episodio di violenza nei confronti di mercanti normanni e bretoni che avevano ormeggiato la nave carica di mercanzie nel porto di Tasquais, all’imbocco del Tago. Un assalto condotto all’improvviso all’interno di un porto faceva forse più scalpore dei soliti arrembaggi in alto mare; ma questo era solo l’ultimo di tanti episodi, anche di altro genere, nei quali qualche francese era stato maltrattato ingiustamente; perlomeno dal punto di vista della Francia. Nicot affrontò con decisione la reggente Catharina, la reggente reagì con altrettanta decisione. L’incidente si chiuse poi nel migliore dei modi con le scuse di Catharina e la promessa di un risarcimento alla famiglia del capitano francese morto nel corso dei fatti. Tutto riprese come sempre. Ma il 5 luglio arrivò una lettera del re. Chiedeva all’ambasciatore di rientrare in Francia.
Tenendo per sé il contenuto della missiva, Nicot iniziò a preparare il ritorno. Per far degnamente fronte ai suoi obblighi di ambasciatore, a fronte di un sostegno inadeguato da parte di Parigi, aveva dovuto intaccare il suo patrimonio e indebitarsi. Ma l’onore della Francia esigeva che non se ne andasse prima di aver sistemato ogni cosa. Continuò il lavoro alla Corte di Portogallo e fino all’ultimo tentò di portare a termine la trattativa per le nozze, poi diede l’annuncio suscitando intense espressioni di rammarico.
Il 10 ottobre 1561 era sulla nave che lo avrebbe riportato in patria; e mentre la nave scivolava sulle onde, rifletteva. Non aveva risolto la questione del matrimonio, ma il bilancio non gli sembrava negativo. Di sicuro aveva dato il massimo. Anzi, (sorrideva) qualcosa di più! E pensava a quell’erba: “une erbe d’Inde, de merveilleuse et expérimentée propriété”. Un’erba delle Indie, di meravigliose e sperimentate proprietà.
Avrebbe potuto essere più cinico e meno idealista, forse, ma nessuno aveva eccepito alcunché sul suo operato a Lisbona: quanto rimane della corrispondenza di Nicot con Parigi sta a dimostrarlo. La sua parentesi diplomatica si chiudeva allora, ma non per demerito: piuttosto, per una precisa e consapevole scelta. Pur mantenendo gli incarichi a Corte, molte più energie iniziò a dedicare alla vera passione della sua vita: la rigorosa ricerca storica e filologica. Riprese così le collaborazioni con altri studiosi ma soprattutto si mise a terminare un’opera cui aveva già lavorato prima di partire per il Portogallo: nei primi anni dell’undicesimo secolo il monaco Aimoin de Fleury aveva realizzato la prima seria compilazione di storia dei Franchi; qualcuno l’aveva ripubblicata nel 1514 ma con molti errori e inesattezze. Solo un attento studioso come Nicot era in grado di farne una rigorosa revisione critica, che uscì nel 1567 con il titolo Aimoin de Fleury - Jean Nicot - Aimoini Monachi, Qui antea Annonii Nomine editus est, Historiae Francorum Lib. V.
Chissà cosa pensava quell’indaffarato religioso, mentre la nave che riportava in patria l’ambasciatore scivolava sulle onde. Da quando aveva pubblicato Les Singularitez de France Antarctique gli eventi avevano subito un’accelerazione. Il libro era stato un successo ma gli aveva dato anche grattacapi. Un discreto numero di intellettuali era partito all’attacco: quell’opera era un’accozzaglia mal confezionata, di scarso spessore culturale, traboccante di fantasie e falsità. In particolare, da parte dei protestanti, si accusava il cattolico Thevet di aver fornito una versione di parte delle dispute religiose esplose laggiù, nella colonia brasiliana. Ma sulle critiche prevaleva la popolarità, anche a Corte dove il francescano era ormai ben introdotto. E qui si poneva un problema: Frate André Thevet era da tempo un autore, o meglio un assemblatore di successo, un organizzatore, un imprenditore, che al posto del chiostro frequentava eleganti saloni mescolandosi ai notabili di Francia. Cose non insolite allora per un religioso, ma quella promessa di povertà da tempo non mantenuta era diventata un peso. Nel 1578 ottenne di essere sciolto dai voti. Nello stesso anno il re gli assegnò il ruolo di Cosmographe du Roy ossia geografo di Corte, affidandogli anche la cura del suo nuovo oggetto di passione: le Cabinet de curiosités royal. La nuova vita di Thevet non si limitava a questi incarichi: la sua vulcanica intraprendenza era già al lavoro su una nuova ambiziosa impresa editoriale. Tutto a gonfie vele insomma, nonostante le critiche. Eppure qualcosa, mentre quella nave salpata da Lisbona scivolava sulle onde, incrinava la sua serenità: una nota stonata ancora flebile, una semplice voce da poco in circolazione che però non lo lasciava tranquillo.
Negli anni seguenti la voce divenne una certezza, sempre più sgradevole, sempre più forte. L’ex frate faticava a mantenere la calma, lo spirito di fraternità del francescano: stava subendo un abuso, un sopruso, un furto, una inaccettabile umiliazione! E il colpevole era proprio quel Nicot. Ne fece di proteste, non c’è dubbio che ne fece; senza troppa fortuna. Una di esse, inequivocabile, la inserì in uno dei tanti capitoli del secondo volume della sua nuova monumentale opera uscita nel 1575: la Cosmographie Universelle. La frase più esplicita e più citata, cui seguiva un grappolo di velenose polemiche, suonava così: Je me puis vanter avoir esté le premier en France, qui a apporté la graine de cette plante, & pareillement semee & nomé la dite plante, l'herbe Angoumoisine. Depuis un quidam, qui ne feit jamais le voyage, quelque dix ans apres que je fus de retour de ce pais, luy donna son nom. Posso vantarmi di essere stato il primo ad aver portato in Francia il seme di tale pianta, di averla seminata, e di averle dato il nome, Erba di Angoulême. Dopodiché un quidam, un “qualcuno”, che non fece mai il viaggio, una decina d’anni da che io ero tornato, le ha dato il suo nome.