Insomma, era una questione di avvoltoi. Come interpretarne il volo? Prevalse Romolo, che si accinse così a segnare con il solco dell’aratro il perimetro delle mura… Ma Remo con un balzo oltrepassò il solco, Romolo non tollerò l’oltraggio e lo trafisse con la spada! Dunque Roma si chiamò Roma e non Remora. Ce lo racconta Tito Livio.
Spesso, mentre accade qualcosa di importante, ancora non ci si rende conto dell’importanza, non è presente sul posto il cronista obiettivo che riferirà come realmente sono andate le cose e tutto si ammanta dell’alone del mito. Una fase indefinita di passaggio diventa un attimo, la Storia cede il passo a una leggenda più o meno sapientemente confezionata. Nemmeno per l’“invenzione” della pipa in radica ci sono cronache puntuali, solo un pulviscolo di frammenti. Anche sull’“invenzione” della pipa in radica fioccano leggende.
Alla domanda “Come iniziò l’utilizzo della radica per le pipe?” risponde un discreto numero di mitici racconti, il più delle volte generici, ridotti all’osso. Sono spesso ambientati nel Sud della Francia, Corsica compresa, là dove cresce l’erica arborea, là dove casualmente qualcuno del Nord viene a contatto col “nuovo tipo di legno” e lo porta poi al Nord, a Saint-Claude. Oppure narrano di persone che dal Sud vanno al Nord, a Saint-Claude, portandovi lo strano “legno che non brucia”. C’è sempre un minimo di verità in quelle leggende, moltiplicate in tante varianti secondo i classici modi della tradizione orale, nella quale ognuno aggiunge toglie o modifica qualcosa a quanto già raccontato da qualcun altro; ma la verità vera (in sintesi) è che nella Francia del Sud il legno del ciocco d’erica era da tempo in qualche modo conosciuto; anzi, se ne facevano già rozze pipe; a Saint Claude ne industrializzarono la produzione. Le date oscillano fra il 1850 e il 1860 salvo qualche incursione fra il 1800 e il 1830. Alcuni dei racconti, più che mitici, potrebbero definirsi “aziendali” come quello che appare sul sito della Casa Courrieu: già nel 1802 Ulysse Courrieu, contadino della regione [di Cogolin, Var] avrebbe realizzato le prime pipe in radica e poi creato la manifattura Courrieu. Altri ancora, meno noti dei precedenti, offrono una versione leggermente diversa.
Il primo è nel capitolo “Les industries de Saint-Paul”, firmato da Louis Abram, del libro “L'industrie dans les Pyrénées-Orientales (Enquête du journal L'indépendant des Pyrénées-Orientales)” pubblicato nel 1923.
Ébauchons di pipe
Prima di citare l'industriale che produce questo articolo, ritengo utile segnalare ai nostri connazionali, che forse non lo sanno, che la pipa in radica è stata inventata a Saint-Paul [de Fenouillet], circa ottanta anni fa. Prima di allora, la terracotta, il legno d’ulivo, il legno duro tropicale, la schiuma di mare erano gli unici materiali utilizzati per fare le pipe.
È il signor Bougnol, detto Andrivet, il creatore della torneria di Saint-Paul, spirito curioso e inventivo, che creò la pipa in radica, ed ecco come:
In uno dei suoi viaggi, mentre passeggiava nelle Landes, nei dintorni di Dax, incontrò un pastore che, a guardia del suo gregge, fumava con aria seria un'enorme e informe pipa. Essendo lui stesso un accanito fumatore, questa pipa lo interessò e, con la sua consueta familiarità, chiese al pastore: “Da cosa hai ricavato questa pipa?” Il figlio delle Landes rispose tra un tiro e l'altro: “È una radice d’erica”. - “È buona?” - “Ti credo; Vuoi provarla?”… E il pastore, che aveva riconosciuto in Bougnol un adepto dell'erba di Nicot, passò la sua pipa a Bougnol che, da intenditore, aspirò beato il fumo fragrante. Un lampo di genio gli attraversò il cervello fin dalle prime tirate. Di colpo intravide lo sfruttamento delle masse d’erica delle nostre regioni, fino ad allora inutilizzate, e prendendo la sua superba pipa di schiuma di mare, disse al pastore: “Scambiamoci la pipa, sei d’accordo?”
Questi, sbalordito, pensando di aver a che fare con un matto, accettò con entusiasmo l'offerta, e Bougnol rientrò a Saint-Paul con la pipa… e la sua idea.
L’indomani furono segati i primi ébauchons e, alcuni giorni dopo, le prime pipe in radica avevano visto la luce. Ahimè! I parti sono sempre laboriosi; la sera stessa della loro venuta al mondo le pipe morirono di congestione, ovverosia scoppiarono. Era l'acqua nativa a causare il disastro, ma si trovò rapidamente il rimedio. Bougnol ebbe l'idea di asciugare la radice facendola bollire in acqua; lo fece, e questa volta il risultato fu perfetto; la pipa di radica era creata. Subito le segherie si organizzarono e gli ébauchons, vale a dire i blocchi abbozzati dai quali si ricavano le pipe, furono spediti a Saint-Claude dove gli industriali di quel paese procedettero alla rifinitura.
Ben presto, l'erica della regione non fu più sufficiente per la vendita sempre crescente, e i figli di Saint-Paul, espatriando, andarono in Provenza, in Italia, in Corsica e in Africa per creare questo nuovo ramo dell'industria. Questi audaci pionieri furono i Vassas, i Billès, i Lacombe Marius, Salvat e Meunier, Foulquier, i cui discendenti detengono ancora il commercio mondiale di pipe in radica
È bene precisare che gli ébauchons esistevano già prima della radica: erano blocchi di legno già stagionati e tagliati nelle dimensioni giuste che i committenti o i capi officina consegnavano ai tornitori di Saint-Claude e di altri centri; e i tornitori ne ricavavano oggetti secondo le indicazioni ricevute. Ma la radica era qualcosa di più che un “altro tipo di legno”: la produzione dei suoi ébauchons era più complicata, comprendendo quella bollitura la cui ideazione qui si attribuisce a Bougnol. Poiché il libro è del 1923 e si parla di “circa ottant’anni fa”, i fatti narrati risalirebbero al 1843 o forse a qualche anno dopo. Dax è un centro della Francia meridionale posto nelle vicinanze dell’Oceano Atlantico. Louis Abram, nato a Saint-Paul de Fenouillet, fu un importante industriale: uno dei pionieri dell’energia elettrica nel dipartimento dei Pirenei Orientali, confinante con la Spagna e affacciato sul Mediterraneo.
Il secondo racconto meno noto è tratto da un articolo firmato da Paul Émile Poitras apparso sul n°13, 26 Luglio 1923, del settimanale Tobacco - A weekly trade review di New York:
La scoperta delle specie di radica attualmente utilizzate per la fabbricazione delle pipe si deve ad un francese, F.Vassas. Nel 1849 il signor Vassas, allora giovane, viaggiando per piacere, scoprì che gli abitanti dei Pirenei si confezionavano una specie di fornello per pipe piuttosto rudimentale con alcune specie di erica dette “scaparia” della famiglia delle ericacee, che consiste in più di milleduecento diverse specie di arbusti. Per realizzare questa pipa si faceva prima essiccare il tronco dell'albero, quindi si scavava rozzamente il fornello anche praticando un foro sul fondo. Si aggiungeva allora un tubo anch’esso rozzamente forato e realizzato in modo tale da essere introdotto nel foro sul fondo del fornello, e l'altra estremità, più sottile, andava messa in bocca. Continuando nelle sue esperienze, il signor Vassas scoprì nel bacino del Mediterraneo che una specie di erica (bruyère) chiamata “arbutus” o “arborea” della famiglia delle ericacee conteneva una grande quantità di tannino nella radice, mentre questa stessa radice mostrò di essere un legno con una fibra molto fine e fitta che presentava la caratteristica di essere allo stesso tempo molto poroso e resistente al fuoco; e, invece di consumarsi, di formare un deposito di carbonio che aveva la proprietà di conferire al tabacco un sapore più dolce. Avendo capito che la sua scoperta avrebbe potuto dar vita a una nuova industria, il signor Vassas decise di dedicarvi la sua esistenza. Iniziò a produrre in piccole quantità e a introdurre sul mercato questo legno noto come “racine de bruyére”, (radica).
La scritta of A. & J. Vassas Inc. abbinata alla firma (Paul E. Poitras) indica che l’articolo era commissionato dalla A. & J. Vassas, società molto nota nel campo degli abbozzi per pipe: la stessa che aveva sponsorizzato quell’intero numero, monografico sulle pipe. Poitras, probabilmente canadese, era un uomo poliedrico: giornalista ma anche manager nell’area tabacco. Un racconto di parte dunque; che, con le dovute riserve, va comunque preso in considerazione.
Per allargare lo sguardo e comprendere altri aspetti della vicenda conviene accostare ai due racconti “meno noti” quello che, fra i più noti, sembra il meno mitico e più documentato. Tratto da una testimonianza scritta dello stimato grossista di pipe Jules Ligier (il quale, a sedici anni, aveva fatto l’apprendistato presso la maison di chincaglierie di François Gay a Saint-Claude) è riportato nel capitolo “Le passé de la pipe et Saint-Claude” (firmato da Bernard Mermet-Maréshal) nel libro “La pipe de bruyère/ Saint-Claude1856 - 1956” edito a Saint-Claude nel 1956.
Erano i primi giorni d’ottobre del 1858. Un viaggiatore dalle maniere un po’ esuberanti e dallo spiccato accento del Sud si presentò un mattino ai magazzini Gay Aîné, al piano terra di Place de l'Abbaye, Maison Mallet. Veniva a offrire i suoi ceppi di bosso, comunemente chiamati “broussin”, che questo mercante acquistava in grandi quantità per la fabbricazione delle sue tabacchiere. Dopo aver preso un ordine per diecimila chili di questi ceppi da consegnare nel mese di novembre, dopo aver parlato della pioggia e del bel tempo e delle vendemmie nel sud, il signor Taffanel [SIC], era lui il viaggiatore, tira fuori misteriosamente dalla tasca un pezzetto di legno, tagliato a sei lati per mezzo di una sega, a forma di spegnimoccolo, il lato grande forato grossolanamente con una punta, il lato piccolo con un buco e munito di una canna in bambù foggiata a bocchino. Ecco, dice, questa è una pipa con la quale un mio amico, pastore del mio villaggio, mi ha assicurato di aver fumato tabacco per più di un anno e che, lo vedete, non è né bruciata né danneggiata. Essa è stata prelevata da un ceppo di erica, simile ai ceppi di bosso di cui mi hai appena chiesto, e che si trova in abbondanza nella nostra regione. Il signor Gay, che era molto interessato a tutto ciò che concerneva gli articoli di Saint-Claude, lo interrogò a lungo. Si fece consegnare altri cinque pezzi simili di erica, che il signor Raffanel [SIC] aveva in tasca, e gli ordinò che due sacchi, ossia dieci grosse di ébauchons simili, gli fossero spediti con urgenza entro la fine del mese. Fece produrre dalla casa Saintoyant-Burdet alcuni tubetti di corno con una parte piatta ricurva che fece adattare a queste pipe e partì per un viaggio con questi campioni. Le dieci grosse di ébauchons ordinate arrivarono regolarmente prima della fine di ottobre. La casa le fece rifinire e assemblare nella sua fabbrica situata a Plan du Moulin sotto il ponte sospeso e, nell'ultima settimana di ottobre, [le pipe] partirono per Parigi, il nord della Francia e il Belgio. Ecco, esattamente in quel momento e in quel modo le prime pipe di radica furono fabbricate a Saint-Claude.
In questo caso tutto avviene a Saint-Claude ma uno dei protagonisti, quello che offre la radica, arriva dal Sud della Francia. Il signor Gay ordina dieci grosse di ébauchons ai primi d’Ottobre e li riceve prima della fine del mese. La grossa, unità di misura che risale al Cinquecento, vale dodici dozzine, ossia 144 pezzi. Dieci grosse fanno 1440 ébauchons. Non molti secondo il metro di oggi, ma dimostrazione che già allora un minimo di struttura produttiva era esistente. Capace di consegnare con una discreta puntualità, se si considera che in meno di un mese l’ordine era partito, la struttura si era attivata, i 1440 abbozzi appositamente tagliati, bolliti, essiccati (o forse erano già pronti, o già in lavorazione…) avevano fatto il viaggio dalla Francia meridionale verso il Nord di Saint-Claude.
Il viaggiatore dai modi esuberanti, nel libro del 1956, vede variare il suo cognome (da Taffanel a Raffanel) nello spazio di poche righe. Certamente un refuso, ma qual era il cognome esatto? Un articolo di Gauthier Langlois pubblicato nel 2019 sul Bulletin de la Societé d’Ètudes Scientifiques de l’Audee e intitolato “Autour de l’industrie de la pipe et de la tabatiere. Innovations et échanges dans la tournerie entre l’Est des Pyrenées et le Jura” porta a concludere che si tratti di “Raffanel”, e più precisamente di Jean François Raffanel, o Raphanel, nato a Carcassonne (dipartimento dell’Aude, limitrofo ai Pirenei Orientali e ugualmente affacciato sul Mediterraneo) il 27 gennaio 1802.
Fu dunque nell’Aude che si misero a punto (qualche anno prima del 1858) i primi abbozzi di radica? Non si può escludere, ma è a Saint-Paul de Fenouillet (Pirenei Orientali) che Louis Abram attribuisce (nel 1923) questo onore, e non è l’unico a farlo: molti anni prima, il 19 novembre 1896, il deputato marsigliese Auguste Bouge, presentando alla Camera una proposta di legge, aveva affermato:
La fabbricazione degli abbozzi di radica per le pipe ha avuto origine nel 1854 a Saint-Paul de Fenouillet (Pirenei Orientali).
Anche la tradizione orale dei segantini indica nella zona di Perpignan (il capoluogo di Saint-Paul) l’origine degli abbozzi.
A completare il quadro aggiungiamo quanto afferma Theofile Laurent nel suo libro “Saint-Claude et son College”, 1926.
Addestrati a lavorare al tornio steli di legno o di corno per le pipe di gesso o porcellana, gli operai di Saint-Claude erano preparati a fabbricare pipe di legno il giorno che una materia prima sufficientemente dura e resistente fosse stata messa a loro disposizione. Alcuni tentativi di impiegare radici di legno non avevano dato soddisfazione quando, nel 1854, le prime radici di Erica fecero la loro apparizione sulla piazza di Saint-Claude. I test all'inizio furono infelici: il legno si screpolava o si sfaldava. Il metodo giusto fu trovato quando si pensò di immergere gli ébauchons in acqua bollente, tenendoli immersi e lasciandoli asciugare lentamente. A poco a poco la manifattura si perfezionò, le macchine utensili furono migliorate, i vari passaggi si moltiplicarono e gli operai si specializzarono. Riteniamo soltanto che le fabbriche si siano ingrandite per le necessità dell’industria. Fu nel 1857 che le prime pipe di Saint-Claude in radica d’Erica furono messe in commercio.
Laurent fu preside del College de Saint-Claude dal 1918 al 1925: in quel periodo ebbe modo di consultare sul posto le fonti migliori e di intervistare testimoni diretti di quegli eventi. Anche lui, come già Louis Abram, mette in evidenza (ma in modo più preciso, comprendendo anche la fase dell’essiccazione) la necessità di bollire gli abbozzi di radica.
Già: non appena i ciocchi di erica arborea apparvero come una possibile materia prima per pipe, sorse il problema di come renderli adatti alla lavorazione. Un aspetto che non aveva troppo assillato i tanti uomini dei boschi i quali, da chissà quanto tempo, ne ricavavano rozzi fornelli di pipa in tutti i Pirenei, ma anche in Corsica, Sardegna e forse altrove. E probabilmente nemmeno quei Celti che nella Spagna settentrionale ne avevano usato il legno per fare utensili, o quegli artigiani dei Pirenei spagnoli che da secoli realizzavano in radica immagini e statuette di santi. E nemmeno quelli che in Italia ricavavano nappi dai ciocchi interi, come si legge nell’edizione 1724 dell’antico Trattato dell’Agricoltura, frutto di diverse successive modifiche alla prima versione opera di Piero de’ Crescenzi, vissuto nel quattordicesimo secolo:
La Scopa è un arbucello molto piccolo, quasi somigliante al ginepro, la cui radice è ritonda, e sì dura, e nodosa, che di quella si fanno ottimi nappi, quando si truova ben soda.
Per la cronaca: Il nappo era una tazza profonda, un vaso per bere, oggetto talvolta prezioso e artisticamente lavorato.
Oltre a ciò, rilevazioni archeologiche su reperti del VI-V secolo A.C. presso Follonica (Grosseto) ma anche in altre parti d’Italia hanno indicato che il carbone di Erica arborea era il combustibile di gran lunga più usato dagli Etruschi per la riduzione del minerale ferroso. Quello stesso carbone era usato nei forni siderurgici dell’Elba ai tempi di Roma antica. Anche in epoche più recenti il carbone cannellino fatto con i rami d’erica arborea era molto apprezzato per il suo potere calorico; massimi risultati si ottenevano dal carbone di ciocco, richiesto dai fabbri per le loro fucine; il quale però, date le sue particolari caratteristiche, richiedeva metodi speciali di produzione. Lo stesso legno del cespuglio di erica arborea si faceva notare per il suo potere calorico ma anche per la difficoltà ad accenderlo: chiaro indizio, questo, di quella scarsa infiammabilità che avrebbe poi fatto tanto comodo alle pipe! Altro impiego dei rami d’erica arborea: costituire il “bosco” sul quale si allevavano i bachi da seta.
Dunque nessuno, in quegli anni di metà Ottocento, aveva realmente “scoperto” l’erica arborea. Stava semplicemente emergendo, da chissà quando, un nuovo e importante modo di utilizzarla. Tutto era iniziato lentamente e casualmente, in diversi luoghi e occasioni, grazie a uomini del bosco che nel loro contesto di vita, nelle loro abituali occupazioni avevano già familiarità con quella pianta e con le più o meno irregolari escrescenze che essa nascondeva sotto la superficie del suolo. Carbonai, boscaioli, pastori, abituati alla manualità, capaci di inventarsi da soli una loro pipa, che fattane una ne fecero altre su richiesta di amici e conoscenti; oppure incontrarono sulla loro strada uomini esperti di pipe o di lavorazione del legno, alla continua ricerca dell’essenza giusta, dotati di mezzi, immaginazione, capacità imprenditoriali.
L’introduzione del ciocco di radica nel mondo incantato delle pipe fu opera corale. Corale dovette essere soprattutto la corsa al metodo giusto per trarre da una informe e umida massa vegetale quel materiale duro, resistente, lavorabile e bello che conosciamo. L’ipotesi “Saint-Paul de Fenouillet” è piuttosto solida, ma può essere che evoluzioni simili, anche solo parziali, si siano verificate in altre località.
Il termine “Erica” deriva dal greco eréikò, “rompo”, per via delle radici capaci di insinuarsi nella roccia, spaccandola. L’erica arborea è una delle tante specie del genere erica il quale a sua volta è uno dei tanti generi della famiglia delle ericacee. Dell’arborea, unica adatta alla fabbricazione delle pipe, stiamo parlando; dell’arborea parlano tutti i “racconti” fin qui proposti, anche dove compaiono denominazioni (erroneamente) diverse. Quella di cui generalmente si ha esperienza è un’erica fatta di piantine basse con tanti piccoli fiori violacei; la specie arborea ha cespugli alti anche sei o sette metri e fiori bianchi. Piante del genere, pur con differenziazioni, si trovano in tante parti del Mediterraneo, a diverse quote ma abbastanza vicino al mare, e sono parte integrante della macchia mediterranea. Ma per i fabbricanti di pipe, anzi di abbozzi di radica per pipe, la parte visibile non ha alcuna possibilità d’impiego. Cercano il ciocco: una escrescenza più o meno grande (dipende dall’età della pianta), più o meno regolare, non sempre presente, che sta totalmente sepolta o in minima parte emerge dal terreno, e si interpone fra rami e radici. Non tutti sono d’accordo sul fatto che il ciocco sia la reazione della pianta a qualche fatto traumatico o irritante, un po’ come le perle nella conchiglia. Certamente ha funzione di filtro, e in caso di situazioni critiche per la parte sovrastante è un’ottima riserva di nutrienti. Tagliando in due il ciocco si vede che c’è una parte più chiara (alburno) alla periferia e una più rossiccia (durame o cuore) al centro. Le pipe si fanno con la parte più chiara, quella di formazione più recente. Non tutti i ciocchi sono uguali, e solo quelli tondeggianti sono adatti a fare le pipe; non utilizzabili sono i più irregolari e bitorzoluti.
Al giorno d’oggi la via è tracciata: i ciocchi adatti, una volta scalzati, vengono portati a una segheria dove, opportunamente tagliati, e con molto scarto, danno luogo agli abbozzi. Questi vengono bolliti, lentamente essiccati e poi forniti ai fabbricanti di pipe. Ma come si arrivò a questa non semplice né scontata organizzazione del lavoro?
Si può immaginare che all’inizio si scalzasse e prelevasse qualsiasi cosa; anche quando si cominciò a capire quali ciocchi andavano bene e quali no, prima si estraevano tutti e poi si decideva quali portar via e quali abbandonare sul posto. Meglio sarebbe stato sradicare solo i ciocchi buoni, ma per far ciò era necessario saper riconoscere la pianta giusta in base all’aspetto della parte visibile, all’esposizione, alla direzione del vento, alla natura del terreno, all’ambiente circostante: ci vollero tempo tenacia ed esperienza per elaborare quell’insieme di conoscenze che, in seguito, divenne una cultura da trasmettere di generazione in generazione.
Inizialmente, per il prelievo, si usarono strumenti già a disposizione. Poi qualcuno ideò attrezzi pensati per le esigenze specifiche del lavoro, tali rendere più agevoli sia lo sradicamento che la prima pulitura sul posto.
Dissotterrati e sommariamente liberati da marciumi e impurità, i ciocchi andavano caricati sulle spalle, su un mulo o su un carro; ma al luogo di lavorazione (al tempo dei primi tentativi) arrivavano molto spesso già inservibili: rovinati, spaccati, crepati. Appena si capì che una volta estratti tendevano velocemente a seccare, fu giocoforza individuare metodi semplici ma efficaci per mantenerli sempre umidi fino al momento del taglio. Per semplificare le cose, piccole segherie furono spesso impiantate nelle immediate vicinanze dei luoghi di raccolta.
In quanto all’attrezzatura per il taglio, non la si dovette del tutto improvvisare: già erano a disposizione diversi arnesi adatti, comprese le seghe meccaniche usate per produrre gli ébauchons di altri legni. Le apparecchiature più perfezionate, la precisa strutturazione del banco di lavoro arrivarono per gradi, con successivi perfezionamenti. Contava anche la forza motrice. L’ideale, agli inizi, fu quella idraulica: si iniziò riadattando vecchi mulini ad acqua o installando nuove ruote lungo torrenti fiumi e canali. Il resto sarebbe venuto solo più tardi.
In quanto al ciocco, all’inizio non si sapeva bene se era meglio utilizzarne la parte periferica più chiara o quella centrale più scura. A volte fu preferita quest’ultima, quando era sana, considerando che nei tronchi d’albero è proprio la parte interna del tronco a risultare più dura e lavorabile; ma presto ci si accorse che il cuore del ciocco dava problemi e si spaccava con maggior facilità anche dopo la bollitura.
Ormai da molto tempo il segantino non taglia a casaccio ma seguendo una serie codificata di schemi cui corrispondono diverse tipologie di pipe, e sta attento a rendere utilizzabile più materiale possibile mettendone al massimo in evidenza le caratteristiche estetiche. Come se la cavavano i proto-segantini di metà Ottocento? Il taglio della radica è un’arte che si perfezionò, con impegno e fatica, di generazione in generazione.
Neanche arrivare alla bollitura e metterla a punto fu uno scherzo. Anzi, fu la maggiore impresa. Forse l’idea venne da chi in Spagna già realizzava con la radica gli oggettini devozionali? O dai tanti che in Germania ma anche altrove già utilizzavano varie essenze arboree per le pipe?
È più plausibile un’altra ipotesi. Nei Pirenei Orientali (anche a Saint-Paul) si fabbricavano i classici tappi per le bottiglie, e chi si occupava di questa produzione conosceva bene i cespugli di Erica Arborea, che proliferavano fra le querce da sughero. Per rendere elastiche e lavorabili quelle cortecce era necessario bollirle in grandi recipienti dal fondo di rame, metallo che conduce bene il calore e non intorbida l’acqua. Facile che a un certo punto qualcuno abbia provato a trattare nello stesso modo anche i pezzi di radica. Ipotesi (parzialmente) alternativa ma complementare: l’obiettivo dei primi esperimenti di bollitura era solo lo spurgo del contenuto di tannino, ma quando si intuì che bollendo si potevano anche ridurre le fessurazioni, la strada della radica apparve più interessante e le prove si moltiplicarono.
Col tempo si scoprì che le ore di bollitura dovevano essere aumentate rispetto a quelle necessarie per il sughero, si trovarono modi pratici per tenere gli abbozzi totalmente immersi, a furia di tentativi si individuarono il momento giusto (la giusta temperatura) per estrarre il materiale dall’acqua dopo che la caldaia era stata spenta, i modi e i tempi di una essiccazione che doveva essere molto graduale e in situazioni di umidità decrescente perché tutto andasse a buon fine.
Non era nemmeno chiaro se fosse meglio bollire i ciocchi interi e poi tagliarli o invece bollire gli abbozzi già tagliati. La prima soluzione era ed è un controsenso per tante ragioni; eppure, almeno in alcuni luoghi, le idee in proposito restarono confuse per un certo periodo. Anche oggi non tutti i criteri di bollitura sono uguali: più di un produttore custodisce i suoi segreti, i suoi grandi o piccoli accorgimenti.
In generale: i pionieri degli abbozzi di radica partirono quasi da zero. A quale grado di perfezionamento fossero arrivate le loro modalità di taglio, bollitura, stagionatura al tempo delle prime consegne ai primi fabbricanti di pipe non è dato sapere ma, probabilmente, c’era ancora molto da imparare. Il meccanismo, comunque, si era messo in movimento.
All’inizio l’intero ciclo di lavorazione, dal ciocco alla pipa finita, si svolgeva in piccole quantità e in un unico luogo; ma non appena entrarono in campo realtà produttive più grandi come quella di Parigi con la fabbrica GBD (Ganneval, Bondier, Donninger) e soprattutto quelle operanti a Saint-Claude, entrambe a distanze considerevoli dai Pirenei, fu la realtà dei fatti a imporre un frazionamento. Da un quintale di ciocchi si poteva ricavare qualche decina di chili di abbozzi; un ciocco crudo va sempre tenuto umido sennò si spacca mentre un abbozzo cotto e parzialmente stagionato non dà grossi problemi di trasporto. Fu insomma una questione di razionalità, soprattutto di costi, a determinare la cesura quasi netta fra l’industria della fabbricazione delle pipe e quella che le forniva il semilavorato: gli abbozzi. Nel corso degli anni ci fu pure chi scelse la continuità della filiera andando dal ciocco alla pipa finita, ma sono casi particolari. Per il resto le realtà che si incaricavano di fornire gli abbozzi ebbero una storia separata, molto diversa da quella dei loro clienti che facevano le pipe. Questo loro essere semplici fornitori li ha precipitati in un cono d’ombra che francamente non meritano: mentre uno stuolo di appassionati si impegna a ricostruire le vicende delle Case delle pipe di radica, quasi nessuno si è mai occupato di recuperare la memoria di coloro senza i quali quelle pipe non sarebbero nemmeno esistite. Sarebbe il caso di riprendere in considerazione questo tema interessante ma trascurato.
Si ringraziano:
Gauthier Langlois (Société d’Ètudes Scientifiques de l’Aude);
Claude Vassas;
Biblioteca Comunale Centrale Sormani, Milano;
Biblioteca Accademia Italiana di Scienze Forestali, Firenze;
Bibliothèque nationale de France;
Bibliothèque municipale de Lyon;
Bibliothèque de Lettres S.C.D. de l'université de Nantes;
Mediateque haut-Jura Saint-Claude;
Mediateque de Perpignan;
Service Commun de la Documentation - Université de Perpignan