La mano di lui era confortevole e calda, come sempre. Quel contatto quasi infantile, eppure carico di passione, tra il suo palmo e quello dell’uomo che amava, le fece trovare le parole per dirglielo. Da qualche giorno ne era certa ormai e quello era il momento per comunicarglielo.
La strada verso il Monte Solaro era diventata familiare e tutto ciò la aiutava. La primavera stava colorando il cielo di rondini, le rocce di verde e qua e là di macchie tanto invadenti quanto armoniose del fucsia delle bouganville: chiome di fiori che sullo sfondo sembravano fare eco alla sua chioma di capelli rossi e ricci, quei capelli che lui adorava e che l’avevano trasformata, nel linguaggio degli innamorati, nella “bella chascona”. Capri era un sogno, il sogno di magia e amore che cercavano da tempo e mentre i loro passi accompagnavano il silenzio musicale dell’isola, Matilde fece un respiro profondo, si riempì le narici dell’aria frizzante di libertà che li circondava e glielo disse. Senza interrompere il dondolare ritmico delle due mani, ma certamente tradendo l’emozione nella presa che si fece più forte, il pensiero venne stampato dalla voce: “aspettiamo un bambino”, parole che risuonarono nell’anima di Pablo come una conferma.
E improvvisamente Pablo tornò a essere Ricardo Eliezer Neftalì Reyes Basoalto nella sua essenza, l’uomo prima dell’artista, prima che quella mattina del 1921 sull’autobus verso Santiago decidesse di prendere il nome del poeta il cui libro aveva appena finito di leggere, Jan Neruda. E così gli attraversarono il cuore e la mente i ricordi della maestra che tanto lo aveva incoraggiato a scrivere, la stessa che gli aveva regalato quel libro, una donna dalla vita intrisa della sua terra e di letteratura, della quale avrebbe in un certo senso seguito le orme, Gabriela Mistral. Orme che anni più tardi avrebbero portato anche lui, come lei, a ricevere il premio Nobel per la letteratura.
“Aspettiamo un bambino” quasi una parola d’ordine che aprì lo scrigno della sua memoria. Un figlio ti riporta al nocciolo e il suo era in Cile. Come sarebbe stato diventare padre? Avrebbe forse compreso meglio le ragioni del suo che lo avrebbe voluto funzionario pubblico e che ostacolò fino alla fine le sue velleità d’artista? Ancora brontola il suo stomaco, lui un uomo di centoquaranta kili, se pensa ai pasti saltati quando dalla famiglia smisero di arrivare i soldi, lui che aveva deciso di lasciare il paesino per cercare la sua strada.
E quella strada lo aveva portato tanto per cominciare a Santiago dove frequentava intellettuali, la capitale cilena negli anni Venti era nel massimo del suo splendore culturale, dove si innamorava e soffriva, nutrendo così se non il copro almeno quella vena poetica che la sua maestra aveva visto brillare in lui fin da bambino. Ma la sua esistenza dal punto di vista economico era davvero miserabile. Un giorno, che ora sembra così lontano, preso dallo sconforto decise addirittura di vendere al banco dei pegni l’orologio di suo padre, l’unica cosa di valore che gli era rimasta. E non lo fece per mettere qualcosa sotto ai denti, ma per pubblicare la sua prima raccolta di poesie: “Veinte poemas de amor y una cancion desesperada”. Quanta vita era passata da allora, eppure “voglio fare con te quello che la primavera fa con i ciliegi” era ora più di sempre la sua legge.
C’era stata l’esperienza di console, poi la militanza nel partito comunista che lo aveva messo contro al governo del suo Paese e che ad un certo punto lo aveva costretto a fuggire in Europa attraversando le Ande a cavallo, cosa per altro non facile per un uomo della sua stazza. Ma ce l’aveva fatta. Adesso era felice. Anzi, erano felici. Era con la donna che amava, Matilde Urrutia. Erano insieme. Erano in Italia. L’Italia del secondo dopoguerra che con gli aiuti americani stava cercando di ricucire ferite, anche a costo di aprire squarci ideologici pericolosi. Come quello che li aveva raggiunti con un decreto di espulsione per Pablo, fortunatamente subito ritirato. Capri li aveva accolti, nonostante per il poeta cileno “pericoloso comunista” da parte di alcuni, ci fosse della diffidenza. Poco importava. Il suo sangue, che aveva registrato l’emozione della notizia della nuova vita che Matilde portava dentro, pompava più velocemente nel cuore. Cosa voleva di più?
Si tolse il basco. Si passò la mano destra sulla testa come ad accarezzare tutti quei pensieri, si allentò la sciarpa di seta che portava al collo e dalla tasca prese la sua pipa. Non usciva mai di casa senza. Quello era il momento di accenderla. Proprio lì tra quella felicità e quelle rocce capresi, godendosi il mare calmo che abbracciava l’isola e la sua donna. E con il sapore del tabacco che irrorava la bocca e l’anima, ebbe l’idea.
Avrebbe sposato Matilde la prima notte di luna piena.
Un matrimonio simbolico visto che in Cile era sposato ufficialmente con Delia del Carril. Ma è l’amore che sceglie chi è moglie, non un contratto. Così l’indomani cominciarono i preparativi. Una sarta dell’isola, su indicazioni di Neruda, si mise all’opera per creare l’abito nuziale a righe verdi e nere con lampi di fili dorati, tessuto come una volta, su antichi telai. La casa sarebbe stata addobbata di rami di ginestra, di fiori di campo e di versi. Versi che non smettevano di affollargli la testa da quando era sbarcato sull’isola. Alla cena avrebbe pensato Matilde, anatra all’arancia e crostacei. L’anello che quella sera di plenilunio Pablo le avrebbe messo al dito avrebbe avuto una dedica: “Capri, 3 maggio 1952. Il tuo Capitano”, suggellando così un “per sempre” che non si può dimenticare.
“Se tu mi dimentichi” – I Versi del Capitano (Pablo Neruda)
Voglio che tu sappia
Una cosa.
Tu sai com’è questa cosa:
se guardo
la luna di cristallo, il ramo rosso
del lento autunno alla mia finestra,
se tocco
vicino al fuoco
l’impalpabile cenere
o il rugoso corpo della legna,
tutto mi conduce a te,
come se cio’ che esiste
aromi, luce, metalli,
fossero piccole navi che vanno
verso le tue isole che m’attendono.
Orbene,
se a poco a poco cessi di amarmi
cesserò d’amarti poco a poco.
Se d’improvviso
mi dimentichi,
non cercarmi,
chè già ti avrò dimenticata.
Se consideri lungo e pazzo
il vento di bandiere
Che passa per la mia vita
e ti decidi
a lasciarmi sulla riva
del cuore in cui ho le radici,
pensa
che in quel giorno,
in quell’ora,
leverò in alto le braccia
e le mie radici usciranno
a cercare altra terra.
Ma
se ogni giorno,
ogni ora
senti che a me sei destinata
con dolcezza implacabile.
Se ogni giorno sale
alle tue labbra un fiore a cercarmi,
ahi, amor mio, ahi mia,
in me tutto quel fuoco si ripete,
in me nulla si spegne né si dimentica,
il mio amore si nutre del tuo amore, amata,
e finchè tu vivrai starà tra le tue braccia
senza uscire dalle mie.