Milano, una calda mattina di fine maggio del 1956. Giangiacomo Feltrinelli è nell’ufficio della sua neonata casa editrice e sta leggendo il Corriere della Sera. L’attenzione è caduta subito su un articolo interessante: “L’atto di nascita dell’Autostrada del Sole ha avuto ieri nella campagna di San Donato Milanese la sua consacrazione…”. Una lisciatina ai baffi seguita in rapida successione da una sistemata agli occhiali, l’indice che preme la montatura spessa tra le folte sopracciglia e cade subito dopo sulla pagina quasi a non voler perdere il filo: “Quella che in meno di 8 anni sarà l’arteria modernissima di grande e celere comunicazione fra Nord e Sud…”.
Una strada per avvicinare l’Italia, progetto lodevole, pensa il giovane. E nella sua testa si fa largo il pensiero del suo personale progetto, per certi versi molto più ambizioso e cioè quello di avvicinare l’Italia al resto del mondo, sprovincializzando culturalmente il Belpaese. Richiude il quotidiano e dando una boccata alla sigaretta si chiede cosa starà facendo Sergio d’Angelo, il ragazzo che lavora per Editori Riuniti e che è stato inviato in URSS dal Partito Comunista per fare un’esperienza a Radio Mosca. Solo qualche giorno prima si sono incontrati a Roma nella libreria del partito che Sergio dirige, stessa passione politica e per l’editoria. Un’intesa perfetta, tant’è che Giangiacomo non ha esitato a chiedergli di fargli da talent scout per la sua personale casa editrice.
Peredèlkino, venticinque kilometri a sud di Mosca, non lontano dall’aeroporto di Vnùkovo la stessa mattina di maggio dello stesso anno. Sergio d’Angelo è appena sceso alla stazioncina dei treni del cosiddetto villaggio degli scrittori. Il suo passo è veloce sulle stradine di terra battuta che collegano le varie villette. Tutt’intorno è verde. Oltrepassato un boschetto di betulle si intravede la casa che sta cercando e l’emozione sale. Si avvicina al cancello, nel giardino c’è un uomo con un giubbotto, pantaloni di tela grezza e in mano una grossa cesoia. Si sta adoperando per sistemare una pianta. La stagione lo richiede.
“Boris Pasternak?” chiede con un leggero accento italiano. L’uomo si avvicina al cancello annuendo e porge la mano. Una stretta vigorosa stabilisce il primo contatto tra i due. Lo stava aspettando, si erano accordati per l’appuntamento qualche giorno prima per telefono. Si accomodano su panche di legno e cominciano una conversazione amichevole finchè Sergio non arriva al punto. In fondo è arrivato in campagna da Mosca per parlare di un romanzo inedito e della possibilità di poterlo pubblicare con Feltrinelli. Pasternak glielo conferma, il romanzo c’è e in URSS, ne è certo, non sarà mai pubblicato. Il contenuto è troppo scomodo. Però è felice di sapere che c’è un editore italiano che può essere interessato, a patto che non rimanga solo faccenda italiana. Secondo d’Angelo è tutto senz’altro possibile, o meglio, inevitabile. Questo fa un editore, pubblica e poi cerca di vendere i diritti all’estero. Così, senza indugio, lo scrittore si alza, entra in casa e riemerge con un plico. Lo porge al suo ospite e lapidario aggiunge “questo è Il Dottor Zivago. Che faccia il giro del mondo!”.
Berlino Ovest, aeroporto di Tempelhof, qualche giorno più tardi dello stesso anno. L’aereo che arriva dall’Italia è appena atterrato. A bordo c’è Giangiacomo Feltrinelli accorso nella capitale tedesca divisa in due solo ideologicamente senza calce e mattoni ancora per qualche anno, non appena d’Angelo gli ha fatto sapere di essere in possesso di una grande opera letteraria da pubblicare. Il talent scout è andato a prenderlo. Troppo importante l’occasione della visita. Gli ha prenotato una stanza nello stesso albergo dove alloggia lui e dove per il momento è custodito, in una valigia che è passata senza dare nell’occhio alla dogana sovietica e a quella tedesco-orientale, il Dottor Zivago. I due non conoscono ancora la portata della faccenda di cui si sono resi protagonisti, ma avvertono comunque il brivido di quella specie di spionaggio culturale. Giangiacomo ha messo il soprabito sul braccio, fa caldo anche a Berlino quel pomeriggio di fine maggio. Sarà l’estate che spinge alle porte oppure la tensione per quanto sta accadendo. Ha con sé solo una piccola borsa, si fermerà pochi giorni, giusto il tempo di prendere il romanzo e magari, già che c’è, fare una serata in qualche localino della capitale. Prima però vuole passare dalla Kurfusterdamm Strasse dove si trova l’hotel, per toccare con mano il suo futuro. Arrivati nella stanza di d’Angelo non resiste, si fa consegnare il manoscritto e pur non capendo una parola di cirillico, si siede sul letto e lo sfoglia avidamente. È lì la modernità, la svolta sua, della sua casa editrice e della cultura italiana che sta per fare quel salto tanto agognato di apertura al mondo. Lì tra quelle pagine.
Infila una mano in tasca per prendere una sigaretta e subito si ferma. Questo è un momento che va consacrato. Toglie la mano di tasca e si dirige verso la sua borsa dalla quale estrae un astuccio di cuoio, là ci sono pipa e tabacco. C’è bisogno di non cedere all’immediatezza della sigaretta, c’è bisogno di gustarsi ogni singola boccata di fumo.
Poi vanno a cena fuori e il libro va con loro. Nel locale incontrano due bionde, due ragazze impiegate della Siemens con le quali ballano tutta la sera mentre sul tavolo, avvolto nel soprabito di Giangiacomo, c’è il Dottor Zivago. Si deve festeggiare, anche se ancora non si sa bene per cosa. Il giovane editore lo scoprirà una volta tornato a Milano, quando telegrafa allo slavista Pietro Zvetermich per avere un parere su quanto portato dalla Germania. In pochi giorni arriva la scheda di lettura e il commento di Zvetermich non lascia dubbi su cosa si debba fare “non pubblicare un romanzo come questo costituisce un crimine contro la cultura”.
Il dottor Zivago esce in Italia per Feltrinelli, in prima mondiale, il 23 novembre del 1957. Già nel nome scelto dall’autore per il protagonista con la sua radice ZHIV che in russo significa VIVO, c’è la forza della verità che non si può soffocare. Nonostante l’autorità russa si mobiliti per evitarlo, Boris Paternak riceve il premio Nobel il 23 ottobre del 1958. Il poeta risponderà con un telegramma di ringraziamento al segretario dell’Accademia svedese di sole 6 parole: Infinitamente riconoscente, toccato, fiero, stupito, confuso.