Il silenzio che avvolgeva le teche del museo di criminologia di Lione, quel pomeriggio di fine ottobre del 1913, era interrotto solo dal rumore dei passi di due gentiluomini inglesi. Ogni tanto si sentiva anche un colpo di tosse del custode che stancamente si trascinava verso la fine della sua giornata e lo strofinare ritmico dello staccio bagnato sul vetro di una finestra, ad opera di una vecchia e lenta inserviente. Il suono assordante, però, che riuscivano a produrre le storie di vecchi e nuovi criminali messe in bella mostra sottoforma di armi, ritagli di giornale, foto segnaletiche e oggetti personali, si infilava nelle orecchie dei due visitatori, lasciando loro poco spazio per conversare. Quando improvvisamente, davanti a una vetrina, uno dei due si ferma, sgrana gli occhi e trattiene a stento una risata. “Arthur, vieni un po’ a vedere chi c’è qui…”. E lì c’è niente meno che Jules Bonnot, bandito anarchico, nemico di Francia, morto solo l’anno prima e già entrato a far parte dei casi eccellenti da mettere al museo. “Non è il tuo autista questo?”. Arthur si avvicina alla teca per guardare meglio e, nel momento stesso in cui la pipa che gli sbuca da sotto il baffo arricciato cozza inavvertitamente contro al vetro, lo riconosce.
Una specie di piccolo gong che dà il via alla partita tra i ricordi e il presente. Ebbene sì, è lui. Quanti pomeriggi passati insieme per le campagne del Sussex a bordo della sua Lanchester Landaulette, quante belle conversazioni con quel giovane francese che s’intendeva di motori. Per lui era solo Sir Arthur e non il grande scrittore, padre del celeberrimo detective che in quel periodo gli aveva fra l’altro reso la vita impossibile. Del resto non si può uscire indenni da un mito come Sherlock Holmes a maggior ragione se ne sei l’inventore. Una presenza così ingombrante finisce per sostituirsi anima e corpo alla tua se non ci stai attento, e così era successo anche a Arthur Conan Doyle.
E quando ormai stufo di averlo appiccicato addosso aveva deciso di farlo morire, fra i lettori successe il finimondo. Si organizzarono scioperi nelle fabbriche, la gente portava il lutto al braccio, per non parlare delle lettere indignate che arrivavano nel suo studio. Tant’è che dovette, suo malgrado, farlo resuscitare. Cosa ci si aspetta da un personaggio diventato persona, che riceve costantemente le credenziali di giovani donne che si offrono come segretarie o cameriere?
Quei lunghi spostamenti sui sedili posteriori della sua automobile con Jules alla guida erano aria fresca per Sir Arthur. A volte si stava in silenzio per ore, solo il rumore dei cilindri della sua auto, una delle prime in circolazione all’epoca, scandiva lo scorrere dei chilometri. A volte invece si cominciava a parlare e non si finiva finchè non si era arrivati. E la meta erano sempre case di povera gente che chiamava Sir Arthur per risolvere casi di quotidiana ingiustizia. A questo si era dedicato, infatti, lo scrittore, per distrarsi dall’incubo “Holmes”. Cercare di mettere a disposizione della realtà il suo geniale metodo deduttivo così amato nei suoi romanzi, per scagionare degli innocenti. Ma la miseria è un marchio che è difficile da togliere e la giustizia sembra starci sempre e comunque alla larga. Così aveva detto Bonnot una sera in cui, dopo aver macinato tanta strada tra i saliscendi delle Southerns Uplands, si erano fermati a pernottare in un albergo di Carlisle e avevano cenato allo stesso tavolo. Cosa lo aveva portato in Inghilterra? La voglia di rendere meno evidente, con la lontananza, il marchio di quella miseria che lo aveva strattonato fin dalla nascita, fin da quando il padre lo aveva portato a lavorare in fonderia anziché farlo andare a scuola. Ogni volta che aveva provato a rialzare la testa era stato costretto ad abbassarla di nuovo. Ingiustamente. E la voce della verità, della sua come quella di tutte le altre vittime, non può rimanere soffocata a lungo. Il dialogo fra i due era quasi sempre legato a questi temi. Anche a Sir Arthur erano cari poiché, da quando frequentava madri di ragazzi incarcerati senza motivo solo perché miserabili e perciò ottimi capri espiatori, si sentiva coinvolto, pur essendo lui ricco e famoso. E poi il punto di vista di Jules gli interessava. Non era uno stupido, niente affatto. E proprio questa sua intelligenza lo aveva portato a trovarsi spesso nei guai. Perché non si può stare zitti quando si capisce cosa succede. Perché la verità ha bisogno di essere urlata se non ci sono orecchie allenate ad ascoltarla. Perché non si può soffocare il grido di dolore di migliaia di condannati senza causa. L’ingiustizia fa rumore e quel rumore dovrebbe risvegliare le coscienze. Cosa che succede nei libri e quelli di Sherlock Holmes ne sono il chiaro esempio, così amati perché là, a differenza della vita vera, trionfa sempre la giustizia. Ma qui le cose vanno diversamente. Quella stessa sera, ricorda Sir Arthur, aveva dato ragione a Jules. Ottenere giustizia non è cosa semplice se sei nato dalla parte sbagliata.
E ora, sempre attonito davanti alla teca del museo mentre legge i trafiletti dei giornali che parlano del suo autista come di un temibile assassino, ripensa a quella conversazione e alle innumerevoli altre avute sullo stesso argomento. Quante volte aveva confessato a quelle orecchie sensibili la sua frustrazione di non essere d’aiuto per scagionare poveri innocenti? Che sia stata proprio quella la scintilla che ha portato poi il giovane Bonnot a far ritorno in Francia e trasformarsi così, definitivamente, in un criminale a capo di una banda di anarchici sanguinari? Chissà! E mentre dà una generosa boccata alla sua pipa viene colpito da un foglietto tra le cose esposte di Jules, un foglietto strappato probabilmente da un quaderno a quadretti, dove di suo pugno il suo autista amabile conversatore, prima di essere colpito a morte dalla polizia scrive: “Avevo diritto di viverla, quella felicità. Non me lo avete concesso. E allora è stato peggio per me, peggio per voi, peggio per tutti. Dovrei rimpiangere ciò che ho fatto? Forse. Ma non ho rimorsi. Rimpianti sì, ma in ogni caso nessun rimorso.”