Arrivano lettere ormai ogni giorno. Sempre la stessa richiesta “potrebbe prendermi in cura?”. Arrivano da tutta Europa ma anche dall’America. Dopo la pubblicazione di “Tipi psicologici” la sua fama è decollata. È bastato coniare due nuovi termini come “introverso” e “estroverso” e darne la spiegazione che subito il mondo si è trovato catalogato e contento. Sono lettere a volte curiose per la scelta della carta. C’è quella intestata e sobria, c’è quella profumata e frivola, è capitato persino di trovarci sbavature nell’inchiostro, certamente a causa delle lacrime. Comunque siano, già dalla grafia con cui è scritto l’indirizzo, il dottore comincia l’analisi del mittente. Soprattutto per come è scritto il suo nome più che la via o la città: Carl Gustav Jung. Come biasimare quegli innumerevoli aspiranti pazienti, per la maggior parte donne, se è l’emozione e non la mano a far scivolare la penna. Non si tratta solo di soggezione di fronte allo psicologo che ha superato la psicanalisi di Freud, ma anche di eccitazione nei confronti dell’uomo che tante donne in pelliccia, come le chiama lui, ha fatto innamorare. Il suo carisma è rimasto intatto, anche ora che del giovane dai neri baffi intriganti rimane un ricordo imbiancato dal tempo. Seduto su una poltrona al fondo del suo studio sta aspettando anche questo mercoledì, come ogni mercoledì della settimana alla stessa ora, la sua paziente più ostica. Ormai sono mesi che si incontra col dottore per cercare di sciogliere i nodi della sua esistenza. Eppure non è capace di scendere dal piedistallo della ragione e perdersi, per poi ritrovarsi più consapevole in fondo all’anima. Non ce la fa proprio ad aprirsi. Nell’attesa Jung si gode il panorama dei volumi che affollano la sua libreria e del lago che si scorge dalla finestra. Vicino a lui il solito tavolino colmo di libri di storia, alchimia, filosofia che possono sempre servire per la consultazione durante la seduta. E un posacenere di cristallo dove riposano cinque tra le sue numerose pipe.
Ma ecco che suonano alla porta, è lei. Lo psicologo si alza, si sistema il panciotto, si toglie gli occhiali e va ad accoglierla. Appena la vede capisce che sarà di nuovo dura passare un’ora cercando di scalfire la corazza che anche oggi indossa. Una corazza fatta di cervello che si abbina bene alla solita gonna beige che le segna i fianchi, alla camicetta chiara abbottonata fino al collo e ai capelli ordinatamente raccolti ai lati.
Prima di farla accomodare e rimettersi anche lui a sedere, il suo sguardo passa inavvertitamente davanti allo specchio sopra al mobile del corridoio. Come far coincidere quell’immagine riflessa con quanto accaduto fino ad ora nella sua vita? È sempre lui il bambino che a soli undici anni si mise a intagliare un omino all’estremità di un righello di legno facendone un totem, uno degli oggetti di culto più antichi dell’umanità, senza saperlo. La natura gli ha sempre parlato una lingua universale e lui ha sempre saputo che c’è qualcosa che va al di là della propria storia personale, qualcosa che appartiene a tutti e da cui tutti possono attingere. C’è voluta molta strada per stabilire che esistono gli archetipi, che esiste un inconscio universale, ma è stata una strada costellata di successi e esperienze memorabili. Anche quelle che l’hanno visto in contrasto con maestri e professori. Troppo intelligente per non avere uno scontro con loro. Ancora gli brucia quando al liceo un insegnante lo aveva ingiustamente accusato di aver copiato un compito perché troppo perfetto. Ma non si ferma alla scuola il suo attrito con la categoria. Sono passati quasi quarant’anni quel mercoledì mattina di giugno, lui è il fondatore della psicologia analitica, tutti vogliono poterlo incontrare per farsi curare, eppure la frattura col maestro Freud è sempre lì, vivida. Come il ricordo di alcuni tra i suoi pazienti. Che dire di Wolfang Pauli, lo scienziato che ogni lunedì all’ora di pranzo per un anno e mezzo lo andava a trovare? La prima volta che lo vide entrare nello studio, ricorda vividamente Carl, ha sentito soffiare il vento del ricovero per malati di mente. Trecentocinquantacinque i sogni analizzati, un materiale onirico incredibile per essere di un unico individuo. Ma è stato proprio il confronto con Pauli a far affiorare nella mente dello psicologo svizzero l’idea che le cose non sempre accadono in successione di causa e effetto, ma che ci può essere un legame orizzontale e non solo verticale. Una comunanza di significato che lega due eventi, delle coincidenze di significato, come le chiamerà poi lui.
La paziente intanto ha cominciato la sua solita disquisizione sulla vita vista dalla parte della ragione. Jung l’ascolta e giocherella con le pipe nel posacenere. Decide persino di accendersene una, ha bisogno di buona compagnia per trovare il bandolo di quella matassa. Quando improvvisamente succede qualcosa. Nel bel mezzo del racconto di un sogno fatto dalla paziente la notte precedente dove lei riceveva in regalo una spilla d’oro a forma di scarabeo, un rumore sordo alle spalle del dottore attira la sua attenzione. Toc. Un insetto alato ha urtato i vetri della finestra. Jung va ad aprire per vedere di che si tratta e, sorpresa, eccolo lo scarabeo di cui si stava parlando, o quanto di più di simile ad uno scarabeo esista dalle parti della Svizzera. Da quell’evento, certamente non legato da un nesso di causa effetto, la sua paziente comincia a migliorare. Lo scarabeo in fondo è un antico simbolo egizio il cui significato è legato al tema del rinnovamento e per una come lei che aveva sempre avuto bisogno di realtà, eccola servita.
Nasce la sincronicità, un concetto decisivo non solo dal punto di vista psicologico e scientifico, ma anche culturale. Trent’anni dopo I Police gli dedicano un intero album.