Nessuno ancora sospetta che il Fram sia diretto verso sud. Roald Amundsen, il capitano, sta giocando d’astuzia. Mentre guarda avvicinarsi il porto di Madeira dal ponte di quella nave costruita apposta per solcare i ghiacci e acquistata dall’amico esploratore Nansen, sa che è arrivato il momento di svelare il suo progetto agli altri dell’equipaggio. Tutti credono di essere partiti per la conquista del Polo Nord e invece li aspetta niente di più distante, almeno geograficamente parlando. Il desiderio di essere il primo a piantare la bandiera del proprio paese alle estremità più inaccessibili del Pianeta gli ha fatto cambiare idea quando ha saputo che l’americano Robert Peary aveva già fatto sventolare la sua a stelle e strisce all’Artide. La croce blu profilata di bianco su sfondo rosso non può che puntare all’Antartide quindi. Anche se non è il solo ad avere quest’ambizione. Dall’Inghilterra è partito con lo stesso intento Robert Falcon Scott.
Roald dà un ultimo sguardo alla costa che si avvicina e si dirige sotto coperta pensando alle parole che dovrà trovare per spiegare ai suoi che non è stato un inganno il suo silenzio, ma parte di un disegno preciso che li vede coinvolti. Lo aspettano vicino al tavolo del carteggio la sua pipa e il suo tabacco. Il momento è delicato, ci vuole un po’ di conforto. Appena sceso a terra deve inoltre mandare un telegramma per informare l’esploratore inglese che con quella decisione la Norvegia, sta per dare inizio a una sfida con l’impero britannico contro il tempo e contro il ghiaccio.
All’imbrunire è il momento di rendere partecipi anche Olav, Helmer, Sverre e Oscar, i quattro amici che lo seguiranno fin laggiù, della nuova ambiziosa meta. Così, seduti davanti a una tazza di caffè le parole escono dalla bocca di Amundsen morbide e decise accompagnate da gesti confortanti e, tra una boccata e l’altra, da nuvole di fumo. Parole che quasi si possono vedere per la loro storica portata. Parole che una volta pronunciate restano scritte nell’aria con cerchi densi e bianchi, dal profumo inconfondibile. Il profumo della grande impresa. Ma sì, si può fare, pensano tutti. L’attrezzatura in fondo è la stessa. Sci lunghi per evitare di cadere nei crepacci ai piedi degli uomini, cinquantadue cani per trainare le quattro slitte a disposizione, giacconi di pelle di foca, renna e lupo per coprirsi, scarponi progettati apposta dallo stesso Amundsen e testati tutto l’inverno. I mesi passati, infatti, sia lui che i suoi si sono molto allenati. L’esploratore, per come la pensa il norvegese, deve avere una preparazione fisica se vuole sfidare la natura e entrare nella storia.
Non è dello stesso avviso Robert Scott che, mentre a Madeira si sta decidendo anche la sua sorte in un certo senso, a chilometri di distanza ma sulla stessa rotta, si sta accendendo la pipa nella solitudine della sua cabina. Le sue parole rimangono incastrate nel pensiero. Tra una boccata e l’altra si compiace di come l’aria intorno a lui si faccia meno limpida, isolandolo almeno in parte dal resto della sua nave. E intanto pensa alla gloria che porterà alla corona una volta arrivato al Polo Sud per primo. L’inverno lui l’ha passato facendo conferenze scientifiche e corsi di fotografia. Per un eroe elisabettiano non c’è spazio per il corpo e la condivisione, è più una questione di testa e prestigio personale. Ma quando di mezzo ci sono gli imprevedibili agenti naturali a determinare onori e successi, l’uomo da solo non può vincere se non si connette con l’universo.
Ed ecco finalmente il giorno di lasciare il Fram e appoggiare i piedi a terra. L’estate antartica sta arrivando anche se non si deve sottovalutare il tempo, soprattutto per la nebbia che può impedire di orientarsi. Il punto scelto per dare il via all’impresa è la Baia delle Balene, il punto più vicino al Polo Sud e anche il più sconosciuto.
L’inglese dal canto suo ha deciso invece di affidarsi a un percorso già tracciato dal connazionale Shakleton, il McMurdo Sound, più distante ma apparentemente meno oscuro, per far partire la sua spedizione. La sfida è arrivata al suo culmine. È l’autunno del 1911 e dalle estremità della Terra sta per concludersi un’epoca, quelle delle esplorazioni terrestri.
I chilometri da percorrere sono 2.800 per Amundsen e i suoi. L’addestramento meticoloso dei mesi precedenti ora non può che dare i suoi risultati. Gli uomini sono sugli sci e ai cani spetta di trainare le slitte. Scelta vincente, la velocità è la stessa e ci si affatica meno. Ci si ciba di farina d’avena, carne di foca e verdure. Purtroppo anche dei cani che nel viaggio non ce la faranno. E anche se sul suo diario l’esploratore norvegese a questo proposito scrive “nell’aria c’erano depressione e tristezza”, il morale è abbastanza alto. Il sole si muove in cielo sia di notte che di giorno più o meno alla stessa altezza. Uno spettacolo che li rincuora ogni giorno di più pensando di essere i primi a poterlo vedere, fino all’arrivo il 14 dicembre di quello stesso anno. “Ecco qui il polo Sud – un’enorme distesa piatta, non si vede una sola irregolarità. Il sole gira attorno all’orizzonte praticamente sempre alla stessa altezza e splende e scalda da un cielo senza nuvole. Questa sera l’aria è ferma e c’è una tale pace”. Per Scott non è la stessa cosa e il suo diario lo testimonia “è assolutamente impossibile andare avanti con questo tempo, e nessuno sa trovare una spiegazione per quello che sta succedendo. Ieri notte il barometro è salito da 29,4 a 29,9, un aumento fenomenale”. Arriverà al Polo Sud dove già sventola la bandiera norvegese trentacinque giorni dopo e non farà mai più ritorno. La conquista del norvegese verrà comunicata solo il 7 marzo del 1912, al ritorno della spedizione. Il telegrafo era troppo pesante per far parte dell’equipaggiamento. Il commento ironico di Amundsen che fin da bambino aveva sognato di raggiungere il Polo Nord sarà “Nessuno ha mai raggiunto un obiettivo così diametralmente opposto ai suoi desideri”.