E' notte: una pattuglia d'uomini attorno al fuoco, più in là il buio e il freddo. Qualcuno tira fuori uno strumento, risuona una voce e altre seguono: «O mio figlio, tu che brilli tra i giovani come fiaccola riempi la mia...»
Sono gli anni Quaranta dell'Ottocento: mentre gli altri cantano, qualcuno ascolta. E annota: «O mio figlio, tu che brilli tra i giovani come fiaccola riempi la mia pipa del puro tabacco di Abrusor; perchè essa mi è più cara del bacio di qualunque fanciulla, quando colla sua canna d'avorio mi scaccia il sonno notturno, assieme al mio caffè ch'io prendo profumato di cardamomo e di noci di cocco o aromatizzato con dodici chiodi di garofano».
Una decina d'anni più tardi quel canto degli Arabi del deserto risuonerà nelle note di viaggio di Yrjö Aukusti Wallin, orientalista esploratore finlandese; e poi ancora (1871) nell'opera proto-antropologica di un vulcanico italiano: Paolo Mantegazza.
Di quel canto si son perse le note, ma bastano le parole. Attraverso aromi sapori e sentori sposano l'Arabia a due sostanze così lontane e così vicine: il tabacco, il caffè. L'una scaturita dall'altra parte del mondo, l'altra apparsa chissà quando e chissà dove proprio in quelle assolate regioni al confine fra Africa e Asia: molto probabilmente in Africa, oltre il Bab el Mandeb, dove sull'altopiano etiopico cresceva da tempo immemorabile un alberello. Alto fino a qualche metro e sempreverde; frutti rossi dalla polpa dolce una volta maturi, apprezzati da scimmie e capre le quali, dopo averli ingoiati, diventavano particolarmente vivaci. "Ciliegie" note anche agli umani i quali a lungo le gustarono crude, poi le unirono ad altri ingredienti, ne fecero infusi o bevande fermentate, infine compresero che la parte più importante erano i due semi giustapposti celati nella polpa, i quali però andavano tostati perché potessero sprigionare un misterioso e caratteristico aroma.
Come quando e dove tutto ciò sia accaduto non è chiaro, ma se tralasciamo favole leggende e azzardate interpretazioni di testi antichi, se cerchiamo un riferimento temporale abbastanza certo approdiamo più o meno all'anno 1454. Fu allora che il Mufti di Aden, sceicco Gemaleddin Abou Muhammad Bensaid, fece un viaggio al di là dello stretto dove, nell'attuale Etiopia, era già ben nota una bevanda scura fatta con i semi dell'alberello. Tornato in patria, verificate su se stesso le qualità benefiche del qahwah, ne divenne convinto sostenitore stabilendo che fosse utilizzata dai Dervisci: proprio del qahwah avevano bisogno per star svegli nelle loro lunghe, estenuanti pratiche religiose notturne. Forse, all'epoca dei fatti, la bevanda era già conosciuta anche in Arabia; ma l'avallo del Mufti la portò prepotentemente in primo piano.
Dall'uso sacro si passò rapidamente a quello civile, a partire da chi lavorava dopo il tramonto per sfuggire alla calura diurna; dalla punta meridionale della penisola arabica la scura bevanda si spostò rapidamente verso Nord sui dromedari dei Dervisci: a fine Cinquecento, quando Cristoforo Colombo cercava le sue Indie, il caffè era già alla Mecca e a Medina. Nel 1510 al Cairo. In quelle città si respirò a inizio Cinquecento un'atmosfera particolare, stranamente simile a quella che il tabacco avrebbe poi innescato cent'anni dopo a Londra. La nuova sostanza piaceva a tutti: faceva sentire più tonici e non contraddiceva i dettami del Corano. La Mecca, città sacra per eccellenza affollata di pellegrini giunti da ogni dove, si popolò di locali chiamati al-maqhah: luoghi accoglienti nei quali non solo si serviva il caffè ma lo si beveva in compagnia, anche fra sconosciuti, giocando a scacchi o ad altri giochi, discutendo liberamente di attualità, divertendosi con canti musiche e balli... Arrivarono i divieti e le persecuzioni ma, come sarebbe poi accaduto col tabacco, non c'era argine a quella marea. Con relativa rapidità l'uso della bevanda si estese a tutti i territori allora legati all'Islam; con l'impero ottomano il caffé e i locali a esso dedicati, che i Turchi chiamavano Kahvehane, iniziarono a spingersi a Nord, nei Balcani.
Il primo studioso europeo a imbattersi nel caffè durante un viaggio in Oriente sembra sia stato il medico e botanico tedesco Leonhard Rauwolf il quale, tornato in patria, ne riferì in una sua opera del 1582. Altri lo seguirono, e non si trattò solo di studiosi pronti a stendere relazioni e memorie: anche i marinai, i commercianti abituati a solcare il mare per i loro traffici decantavano le meraviglie della bevanda islamica lasciando a bocca aperta amici e frequentatori di taverne. A bocca aperta ma senza una gran voglia di provare quel liquido nero come la pece da sorseggiare ancora bollente... Solo quando qualcuno pensò di portare direttamente in patria la possibilità di provarlo, ed erano quegli stessi marinai e commercianti, il caffè iniziò a radicarsi a Nord del Mediterraneo. A Venezia si iniziò a venderlo nel 1640, a Marsiglia nel 1644.
Intanto fra Cinque e Seicento, sulle navi di Veneziani Inglesi e Portoghesi, il tabacco aveva fatto il percorso inverso: in Oriente suscitò entusiasmi diffidenze e ostilità come in Europa, insediandosi poi con naturalezza nei territori del caffè a partire dalle frequentatissime Kahvehane sparse ormai dappertutto. L'aromatica erba venuta dalle Americhe incontrava così gli aromatici chicchi giunti dall'Africa (via Arabia) in un incredibile connubio di aromi, sensazioni, civiltà. Ma all'abbraccio fra due diverse pratiche e provenienze mancava ancora un tassello: assieme ai chicchi anche la cultura del caffè legata alla ricchissima vita sociale della Kahvehane andava portata in quei Pesi dai quali il tabacco era venuto. Fu probabilmente a Venezia (1645) il primo locale europeo da caffè, o perlomeno il primo tentativo: lo chiamarono "Bottega del caffè" o semplicemente"Caffè". In Francia "Café", in Germania " Kaffeehaus ", nei Paesi anglosassoni "Coffee-house". Spazi eleganti, adattati ai gusti europei, a volte con qualche concessione all'Oriente, dalle tante diverse caratteristiche ma accomunati da un senso di socialità molto sviluppato. Luoghi d'incontro eminentemente maschile nei quali si facevano affari, si parlava di letteratura, arte, attualità, politica. Si giocava, si leggeva. Si fumava. Spesso vi si trovavano pipe pronte all'uso e candele per un'agevole accensione. Si verificava in quei luoghi anche l'incontro fra due raffinati rituali: quello del fumo fatto di tabacco, pipe, accessori; quello del caffé con le sue tazzine, i piattini, il necessario per zuccherare. Rituali pronti poi a trasferirsi nelle case, negli usi privati.
Fu il Settecento il secolo d'oro dei "Caffè"; il caffè, del resto, con la sua capacità d'esaltare la concentrazione, fu la bevanda d'elezione degli Illuministi; poi il declino, o perlomeno una metamorfosi decisa: dal locale più o meno elegante teatro di una socialità allargata a luoghi più adatti ai frettolosi dell'età industriale, pronti a sorbire qualcosa da soli o con qualche amico e scappar via.
Questo, con qualche eccezione, sono le Coffee-house, le caffetterie, i caffè dei nostri tempi. Sono diverse (spesso banalizzate) anche le modalità di consumo di tabacco e caffè, sia in pubblico che in privato; anche se, in cerchie ristrette, non è certo sparito il gusto di condividere queste esperienze. Di sicuro s'è conservata, anzi sta tornando, l'arte sottile di abbinare una buona fumata al gusto del caffè, creando ancor oggi quell'unica impagabile emozione nata dall'incontro-scontro di sensazioni, sapori, sentori venuti da Occidente, venuti da Oriente. Senza per questo restare disorientati...
Ma come si unisce un buon tabacco a un buon caffè? Innanzitutto ci vogliono idee chiare sui tabacchi e sui caffè: è questione di sfumature, di blend se vogliamo usare un termine che ci è caro. E come tutti i blend anche questo può esser basato sulle affinità o sui contrasti; oltre che sulle proporzioni. Oppure sulla provenienza: più di un esegeta della miscela esplosiva Caffè-tabacco Tabacco-caffè invita a "guardare l'etichetta" scegliendo per le due sostanze lo stesso luogo di produzione. Non trascuriamo poi il fattore soggettivo: come è giusto che sia, i criteri dell'abbinamento sono, devono essere, personali.
Fumare tabacco e bere caffè: un'arte sottile, dicevamo, che promette e mantiene molto esaltando col caffè il gusto del tabacco e col tabacco il gusto del caffè. Il connubio però è impegnativo e richiede calma, concentrazione, misura oltre che una scelta di metodo: prima il fumo o la bevanda? Oppure insieme, ogni sorso una tirata? Anche in questo caso la decisione spetta a chi fuma e sorseggia, considerando che ciascuna delle opzioni dà luogo a effetti diversi. C'è chi preferisce iniziare col caffè, dominante e persistente: ne resterà traccia sul palato durante la successiva fumata. Chi vuole invece gustare il fumo senza eccessive interferenze darà la precedenza alla pipa facendosi invadere subito dopo dalla frustata del caffè. Per un connubio più stretto, per fumare e sorseggiare insieme, la scelta dei due prodotti dev'essere molto attenta perché il sapore del caffè non sovrasti troppo quello del tabacco.
Ma per non perderci in discorsi troppo tecnici, meglio tornare a quel vulcanico italiano di cui si diceva all'inizio, citando un altro brano della sua opera:
«L'amante unica, vera e legittima del caffè è la nicoziana, e ben ve lo dicono quei sibariti di Turchi che per la bevanda del cielo il tabacco è il sale. Il fumo di un puro, di un manilla o di un vero tabacco turco che passi amorosamente nella boccuccia voluttuosa dell'ambra, si associa stupendamente all'austero aroma del caffè, e il sensualismo del palato ondeggia inebriato fra una carezza e un rabbuffo».
Dunque il tabacco è "solo" il sale del caffè? Così avranno pensato i Turchi di allora, così legati alla nera bevanda; ma i fumatori d'oggi? Noi preferiamo un detto, di probabile origine persiana, che traduciamo liberamente da un altro libro dell'Ottocento: «La carne senza sale è come il tabacco senza caffè».