Il telefono della stanza 3102 del Grand Hotel di Seul non fa che suonare di continuo. Una giovane donna, l’assistente dell’ospite che soggiorna lì, ha appena detto alla reception di non passare più nessuna chiamata. Luciano è esausto. Il 1993 è cominciato da pochi giorni, ma con tutto quello che è successo nell’ultimo mese sembra una vita. I giornalisti lo tartassano, le critiche piovono su di lui che, essendo un bersaglio grosso come ama scherzare spesso, viene colpito con facilità. Luciano manca dall’Italia dal giorno di Capodanno e anche se è abituato a girare il mondo, prova sempre un po’ di nostalgia per casa. Ora ha bisogno di distendere i nervi e così decide di farsi portare in giro per la città dal suo autista. Non sarà facile schivare la gente, ma è sempre meglio posare per delle foto con i fan che ti fermano per strada che dover rispondere alle domande impertinenti della stampa circa la sua stecca nel Don Carlo di Verdi alla prima della Scala dello scorso 7 dicembre. Prima di uscire si copre per bene, mette la sua immancabile sciarpa bianca e chiede alla sua assistente Nicoletta di passargli una borsa di cuoio che porta sempre con sé in valigia. Dentro ci sono le sue pipe e del tabacco. Appena fuori dall’Hotel se ne accende una e in quella piccola nuvola di fumo che esce dalla sua pipa e si mescola nell’aria alle nuvole di fumo che escono dalle bocche di tutti i passanti per il freddo, ripensa a suo padre. È lui che ha fatto nascere la sua passione per il bel canto. Lui e la sua collezione di dischi con tutti i più grandi dell’epoca, da Caruso a Gigli, da Di Stefano a Tagliavini. Si rivede bambino in piedi sul tavolo della cucina ad intonare arie famose. Anche papà era tenore. Che bella voce aveva, ripensa Luciano. E mescolando i ricordi dell’infanzia con quanto accaduto solo un mese prima nel tempio scaligero, sente riecheggiare i fischi del loggione fin dentro all’anima. Un’altra boccata per metterli a tacere ed è di nuovo là, nella sua Modena. Rivede la mamma a lavorare nella fabbrica di sigari fianco a fianco con Adele, la mamma di Mirella Freni, soprano di fama internazionale pure lei e amica di sempre. Altro fumo che dalla pipa va a scavare nei ricordi ed eccolo in macchina verso Mantova, proprio con Mirella, per prendere lezioni di perfezionamento dal maestro Campogalliani. Quanta nebbia su quelle strade e quanti sogni condivisi durante il tragitto, sogni che hanno avuto la possibilità di avverarsi per entrambi. Due madri colleghe di lavoro, due Carmen, tanto per rimanere in tema d’opera e loro, cresciuti insieme anche professionalmente.
L’autista nel frattempo è arrivato e gli sta aprendo la portiera per farlo salire: “Mister Pavarotti, good morning”. Luciano si siede, abbassa leggermente il finestrino e la sua testa prosegue nel viaggio della memoria. Mentre il fumo viene risucchiato dalla fessura guarda scorrere la vita che pulsa nella strada della capitale sudcoreana. Uno sguardo alla sua assistente seduta di fianco, una mano affettuosa che le sfiora il viso e l’altra che stringe la pipa. Il suo respiro sa di tabacco e la sua storia continua. La gioventù di Nicoletta lo riporta in un secondo ai suoi ventisette anni, quando ancora sconosciuto alla Royal Opera House di Covent Garden a Londra, nei panni di Rodolfo, sostituì il grande Di Stefano. È bastato un malanno che ha fatto abbassare la voce al tenore italiano di fama internazionale che lui, giovane promessa, si è potuto affermare davanti a un pubblico di veri melomani. Che successo quel “giovanottone”, come lo aveva chiamato Joan Ingpen, la controller of Opera Planning degli spettacoli più importanti del teatro inglese: “si attaccava agli acuti come se non volesse lasciarli mai più”. Tutto è cominciato lì. Il mondo ha cominciato a interessarsi a lui e lui al mondo. L’ascesa nell’olimpo dei tenori lo ha visto subito dopo al Metropolitan di New York e la stampa lo ha battezzato il tenore Incanta-America. Ah, la stampa. Com’è difficile essere una superstar, riflette big Luciano che sa che quei fischi alla Scala sono frutto del mito dell’immagine. In quel momento medita addirittura di togliersi dalla scena italiana per un po’, niente di tragico, solo una pausa. Non smetterà di certo di cantare. Nella sua vita ha smesso solo una volta, per un anno intero, quando come nell’evoluzione naturale di un uomo arrivò anche per lui il momento del cambio di voce. Sorride tra sé e sé ripensando di nuovo al padre e al suo modo così bizzarro di incoraggiarlo, ora che avrebbe davvero bisogno di essere incoraggiato. Lui era solito fare il suo commento alla fine delle performance del figlio. Dopo la prima Boheme del ‘61 gli disse “bene, ma Laura Volpi era meglio.” Dopo il successo al Covent Garden che l’ha consacrato a livello internazionale gli scrisse “Tagliavini era meglio”, dopo il battesimo della Scala “Gigli era meglio”. Dopo gli applausi nel 1968 del pubblico newyorkese Luciano gioca d’anticipo e gli telegrafa ironicamente “Caruso era meglio”.
Nicoletta è sempre lì seduta al suo fianco, in silenzio. Sa che il maestro ha bisogno di starsene un po’ da solo. Ogni tanto lo guarda e gli sorride, complice. Su quel viso così fresco Luciano vede scritta la possibilità di una nuova vita, mentre rivive fra sé e sé tutte le meraviglie del passato. Una ravvivata alla brace e sente il caldo che gli invade il corpo e che lo riporta al luglio del 1990 con Placido Domingo e Josè Carreras alle Terme di Caracalla. Ah quanta latinità tutta insieme per un concerto in mondovisione. E l’anno successivo davanti a 250 mila persone ad Hyde Park a Londra, dove nonostante la pioggia battente, che cadeva pure sugli entusiasti Principi di Galles Carlo e Diana, lo spettacolo diviene un’altra volta un evento trasmesso dal vivo in televisione in tutta Europa e negli Stati Uniti. Rivedendo tutti quei successi piano piano i fischi della Scala cominciano a perdere di tono. Sono gli applausi che hanno il sopravvento nella sua memoria. Ed è proprio in quel momento che comincia a delinearsi una nuova strada nella sua mente, sia affettiva che professionale. Svuota la pipa nel posacenere dell’auto, stringe la mano di Nicoletta guardandola intensamente negli occhi e chiede all’autista di riportarli all’Hotel.
Nel giro di un anno Nicoletta diventerà la sua nuova compagna e la mamma della sua terza figlia. Con lei darà seguito al progetto Pavarotti&Friends. La musica pop sarà la sua nuova frontiera, dopo la lirica. Pavarotti diventerà un marchio di garanzia senza temere di usare il suo nome come un logo. Da allora Pavarotti vorrà dire opera, ma anche grandi folle per beneficenza per i suoi duetti a fianco di tutte le pop star internazionali, da Zucchero a Sting, dagli U2 a Elton John. Ma il suo primo amore non lo scorderà mai. Nel 2007, poco prima di lasciarci a soli 71 anni, in una sorta di testamento spirituale, chiederà di essere ricordato come un tenore d’opera. Il bel canto è stata tutta la sua vita e non vuole che il personaggio costruito dai media continui a fagocitare l’artista.