Johanna ha appena richiuso il libro che stava leggendo, non senza aver fatto prima una piccola piega all’angolo della pagina. Il titolo in copertina dice “Die Wahlverwandtschaften” ovvero “Le affinità elettive”. Riprenderà la lettura più tardi. Ad Albert piace ascoltarla mentre lei gli legge Goethe in tedesco. Del resto il tedesco è la lingua che li accomuna e che in America non è frequente sentire in quel preciso periodo storico. È anche un modo per sentirsi meno soli quello di alleggerire il cuore e la mente parlando l’idioma natio, loro così lontani da casa, mentre il nazismo sta oscurando il mondo coi suoi orrori. Lei, appartenente a una delle famiglie di intellettuali più conosciute a Praga, appena arrivata a Princeton nel 1939 era andata subito a trovare Einstein che era già una celebrità e che negli Stati Uniti c’era ormai da anni. Quale sorpresa per lo scienziato tedesco ricevere una visita come quella, una visita che lo aveva riportato in pochi istanti alla sua Europa e ai salotti boemi dove aveva incontrato Kafka e tanti altri amici che non avrebbe mai più rivisto. La nostalgia per il vecchio continente con l’andare degli anni si faceva sempre più sentire e quei suoni così familiari che uscivano dalla bocca di questa giovane lo riconciliavano con le brutture del presente. Fu lui che le trovò un lavoro come bibliotecaria. Da quando era morta la moglie la solitudine era ancora più grande e pensare di poter avere vicino qualcun altro che si prendesse cura di lui, non gli dispiaceva affatto. Soprattutto vista l’alchimia che si era creata subito con Johanna nonostante i vent’anni di differenza.
Come nel libro che lei ha appena posato sul tavolo, sorprendeva ogni volta Albert la specularità tra fenomeni fisici e psichici, tra natura e spirito che pure fra di loro si era palesata. E guardandola seduto in poltrona coi piedi appoggiati su una pila di riviste con la sua immancabile pipa tra le mani, quel giorno, ha sentito più che mai una profonda gratitudine per quello che la vita gli stava ancora riservando. Certo non è più come quando viveva nella sua splendida casa a Caputh a pochi chilometri da Berlino, quel paradiso dove poteva senza fatica dimenticare ogni preoccupazione. Eppure anche la cittadina universitaria americana gli aveva regalato dei bei momenti. Non c’erano i laghi della Germania, ma c’era pur sempre il lago Carnegie dove passava parte delle sue giornate. La passione per la vela era una delle poche che si era portato oltre oceano. Ogni tanto ripensava al giorno in cui il transatlantico Westmoreland lo aveva scaricato a New York quella piovosa mattina di ottobre del ‘33. Lo avevano subito scortato verso Princeton per questioni di sicurezza, lui con la sua chioma che sfidava le tese larghe del suo cappello scuro, la custodia del suo violino e la sua pipa. Ancora non sapeva che quella sarebbe stata la sua nuova patria. Quando gli assegnarono lo studio in uno degli edifici universitari gli chiesero di cosa avrebbe avuto bisogno. Oltre a un tavolo, una sedia, della carta e delle matite Einstein aggiunse “anche un grande cestino per la carta straccia in modo che possa buttar via tutti i miei errori”. E gli errori che per il momento lo disturbano oltremodo sono quelli che si stanno perpetrando contro l’umanità, anche se la lontananza fisica lo ha messo in qualche modo al riparo. In una delle sue lettere all’amica Regina Elisabetta del Belgio lo ha infatti confessato “quasi mi vergogno di vivere in una tale pace mentre il resto del mondo combatte e soffre”.
Johanna gli porge il suo giaccone, fuori fa freschino. Non insiste più ormai perché si metta le calze, lui è fatto così, vuole avere i piedi liberi. Sono pronti per uscire. Al porticciolo li aspetta la loro barca. Per Albert la vela è un modo per salpare ogni volta dalla staticità della terra e navigare liberamente nel mare magnum delle sue intuizioni, per cercare di dar loro un ordine. Non sa nuotare ma poco importa a lui, il rumore del vento lo tranquillizza e non si farà spaventare da una possibile, quanto remota, caduta in acqua. Ormai è solo un ricordo lontano quello della sua Tuemmler, così l’aveva chiamata, la barca che alcuni amici gli avevano regalato quando viveva ancora in Germania. Un sei metri di cui andava così fiero e dove non mancavano mai carta e penna per annotare le idee. Quando la Gestapo gliela confiscò fu uno dei momenti più difficili per Albert. Ma ora anche quello è superato. La barchetta dove Johanna lo porta quasi quotidianamente gli dà comunque un po’ di serenità. Come ascoltare Mozart. Quale musica migliore per sedare le esplosioni della sua mente. Musica, vela e naturalmente una pipa.
A volte gli piace intrattenere la sua giovane amica con delle storielle e a proposito di pipa, la scommessa che fece con la moglie un giorno durante la cena del ringraziamento, è una di quelle. Lei lo rimproverava sempre di fumare troppo così lui scommise che si sarebbe tenuto lontano dalla sua pipa fino al nuovo anno, dicendo sarcasticamente agli amici “ecco non sono più schiavo della pipa, ma di questa donna”. Riuscì a mantenere il patto, ma la mattina di Capodanno si svegliò all’alba e accese la sua pipa. Non se la tolse di bocca mai più se non per mangiare o dormire. Johanna ogni volta sorride con tenerezza perché, pur essendo passato del tempo, riconosce ancora in quei racconti l’uomo che le sta accanto, con le sue stranezze, i suoi modi bizzarri, le sue fisse. Solo a lei per esempio è concesso tagliare la sua massa di capelli quando eccedono in volume. Sono quasi un’emanazione tangibile degli intricati misteri della sua testa e lei ci si può muovere liberamente. Solo lei si prende cura dei suoi acciacchi che col tempo aumentano, e sempre e solo lei regola le visite degli ammiratori che si fanno via via più insistenti. Tanta dedizione che lei annota giorno dopo giorno sul suo diario. Per contro Albert le sarà grato fino alla fine, soprattutto di partecipare ai suoi giri in barca e di aiutarlo a liberare gli ormeggi dalla logica per farlo naufragare dolcemente nei meandri della sua mente. Sempre con una pipa in bocca.
Pipa Dunhill Albert Einstein