Ernest ha appena girato il nastro dell’inchiostro della sua macchina da scrivere sul rosso. “Acquistare delle cartoline”. È un messaggio per Mary. Quando scrive in blu sono frasi che si possono inserire nel libro in corso, quando scrive in rosso sono messaggi privati per la moglie. Anche quella mattina sveglia all’alba. Camicia di flanella, gilet, pantaloni di velluto a coste e infine gli occhiali. Ci vuole sempre un po’ per trovarli in mezzo alle cose che giacciono sul suo comodino. Ci sono gli immancabili fogli scritti il giorno precedente, un posacenere con pipa e tabacco e delle bottiglie di vino a fargli compagnia per la notte che per lui dura poco. Ernest comincia alle 5 la sua giornata di lavoro e fino alle 11 non esce dalla sua stanza. Scrive e riscrive incessantemente i suoi pensieri. Semplici. Lineari. Soggetto verbo predicato. Soggetto predicato verbo. Punto e a capo. È il suo modo rivoluzionario di mettere su carta la realtà. Senza fronzoli. Viva e vibrante. Audace. Ironica. Piena di doppi sensi. I suoi genitori quando avevano letto “Addio alle armi” si erano vergognati molto di quel suo modo di scrivere. Ma quella è la vita che passa attraverso i suoi occhi e che trova poi sfogo nelle sue parole dense, affilate, carnali. Singole parole che reggono un’intera pagina.
Essere in Italia lo riporta spesso alla sua esperienza di guerra, quella da cui Addio alle armi prende spunto. Anche se sono lontani quegli anni ormai. Lontane le due guerre, lontani i suoi screzi col regime Fascista, quando come inviato del Toronto Star nel 1923 partecipò al convegno della pace di Losanna e ebbe modo di incontrare Mussolini definendolo “il più grande bluff d’Europa”. Lontani sì, ma vicino è il sentimento per una ragazza italiana che nel ’43 è stata incarcerata dai nazifascisti proprio per aver tradotto quel suo libro, così antimilitarista, basato sulle vicende che l’hanno visto protagonista sulle montagne del Veneto. E l’occasione di essere a Cortina per un po’ lo spinge a mettersi in contatto con lei.
È ormai quasi l’ora del pranzo e dopo aver guardato quanto scritto da lontano, come fa un pittore coi suoi quadri, Ernest si alza, si dà una sistemata alla cintura, beve l’ultimo sorso dal bicchiere e chiede alla moglie di accompagnarlo in paese. L’aria è fresca, è settembre inoltrato. Un passaggio veloce al bar dell’Hotel Posta per un Bloody Mary, poi a comprare delle cartoline. La più urgente è quella che deve partire per Torino, indirizzata alla traduttrice coraggiosa. Lei è Fernanda Pivano. Il messaggio dice “sono a Cortina, vorrei vedervi”. Firmato Hemingway. Così vero da sembrare uno scherzo. Ce ne vorrà una seconda infatti perché la ragazza capisca che sì, sta succedendo proprio a lei. “Se non volete venire a Cortina verrò io a Torino, ma devo parlarvi”. Sono i primi di ottobre del 1948. Raggiungere Cortina non è facile. Ma Nanda, così la chiamano tutti, compra il biglietto del treno e parte una mattina all’alba. Parte da Torino ed arriva a Venezia. Poi da lì prende un trenino, quello delle Dolomiti, che si inerpica su fino al paese per fare l’ultimo tratto di strada. Proprio su quei sedili freddi, mentre il paesaggio dai finestrini cambia rapidamente, Fernanda pensa alla sua vita, alla sua passione per la letteratura americana inaugurata proprio con quella disavventura nazista e sorride. Se questo l’ha condotta dal grande
Hemingway non è stato poi tutto sbagliato. Ha portato con sè una piccola borsa dove ha messo un cambio. Non si può andare e tornare in giornata da Torino a Cortina e poi vuole avere tutto il tempo necessario per parlare con lo scrittore americano. Un’occasione come quella non capita spesso. È all’albergo Concordia che tiene aperto fuori stagione solo per lui e i suoi amici. Quando lei entra nella sala da pranzo sono ormai le nove di sera. Lui nel vederla si alza e le va incontro con le braccia aperte, dandole un abbraccio da farle scricchiolare le ossa. E in mezzo a quel calore, una frase sussurrata nelle sue orecchie “tell me about the nazi”. Nasce subito una strana alchimia tra i due. Non smettono di parlare, di confrontarsi. Lui ripercorre con lei tutte le tappe della sua grande guerra riportata poi nel libro che li ha fatti incontrare. Riformato dal servizio militare per un difetto all’occhio, si arruola nella Croce Rossa e viene mandato in Italia. Qui ogni giorno sale in bicicletta fino alle trincee carico di cioccolata, sigarette, cartoline da consegnare ai soldati in prima linea. Finchè un giorno vicino a Fossalta viene colpito dai frammenti di un mortaio. Con le gambe cosparse di schegge si carica sulle spalle un ferito. Dopo 50 metri una mitragliatrice gli dilania il ginocchio destro e viene ricoverato. Passa di ospedale in ospedale, da Treviso a Milano dove arriva qualche giorno prima del suo diciannovesimo compleanno il 17 luglio del 1918. Qui comincia la sua avventura italiana, innamorandosi dell’infermiera Agnes von Kurowsky, che diventerà nel romanzo Katherine Barkley. Per lui la guerra è come la caccia e la pesca, situazioni dove l’uomo deve dimostrare coraggio. E il coraggio è l’ingrediente principe della sua vita. Da bambino suo padre chirurgo gli aveva insegnato a sopportare il dolore canticchiando, mentre sua madre lo vestiva da bambina. Come uscire indenni da queste esperienze se non diventando oltremodo “macho”? A dieci anni gli regalano il primo fucile. Inoltre vivere vicino ad una riserva indiana lo fa crescere con un rapporto particolare con la natura. Ecco perché non teme sfidarla. E anche il suo modo di camminare, così molleggiato, da duro, in realtà è stato il suo modo di emulare la camminata dei grandi capi indiani. Nanda ascolta ogni parola di Mister Papa, come vuole farsi chiamare lui. Passano due giorni all’aperto, come piace ad Ernest e tra un racconto e l’altro fanno anche delle escursioni con la sua Buick blu cabrio, aperta nonostante la temperatura. Qualche bottiglia di Gin, la sua bevanda preferita durante il giorno, una pipa sempre carica e la moglie bardata sul sedile posteriore, mentre Nanda davanti, di fianco a lui che lo ascolta raccontare dei safari, della caccia, della pesca, dell’Africa, della Spagna e di Cuba.
La gita a Cortina finisce. Hemingway viene spesso in Veneto, va a caccia con nobili del posto e si ferma spesso anche a Venezia. Quel primo incontro è andato molto bene, si è divertito. Vuole rivederla e così la invita a passare il Natale insieme. Nanda accetta, non le sembra vero. È solo l’inizio del loro rapporto che durerà fino alla fine della vita di Hemingway. E pensare che tutto è cominciato con un arresto.