"Quattro principali metodi di cura" s'è detto; e quattro sono, se proprio miriamo all'essenziale. Esagerando potremmo ridurli anche a due, ma tutto ciò ha senso solo se, passo dopo passo, riusciremo poi a scoprire che la realtà è tutt'altra cosa. Che le tecniche di cura variano da tabacco a tabacco, da luogo a luogo, da produttore a produttore; che quelle di oggi sono il frutto di un'evoluzione dapprima lenta e poi sempre più accelerata, prima dispersa in mille rivoli, poi man mano più generale e diffusa.
Sappiamo che il tabacco, ai tempi di Colombo, veniva di norma essiccato semplicemente al sole; ma c'era chi ne seppelliva un po' per poi recuperarlo dopo un periodo passato sotto terra. Una cronaca del 1615 riferisce che gli Spagnoli insediati a Santo Domingo vi aggiungevano uno sciroppo d'acqua salata, melassa, miele nero, pepe della Guyana e fecce di vino per dargli colore e lucentezza. I Muskogee, Indiani nordamericani del Sudest, lo esponevano al fumo di legni aromatici in rudimentali affumicatoi. Già allora, insomma, ci si dava da fare per migliorarlo sfruttando tutte le possibilità a disposizione; non così diverse, a ben pensarci, da quelle di oggi. Solo che noi, grazie ad esperienza e tecnologia, siamo capaci di sfruttarle meglio.
Il primo metodo è la cura al sole; se ne ricava il tabacco sun cured.
Curare il tabacco non è semplicemente seccarlo, però disidratarlo si deve; e per questo, lassù in cielo, c'è lo strumento ideale. Assieme al calore conta anche, per disperdere l'umido dell'evaporazione, la circolazione dell'aria messa in moto proprio dalle differenze di temperatura che l'astro provoca nel suo girovagare. Questo metodo è incentrato dunque sull'esposizione ai caldi raggi; ma asciugare il tabacco al sole, come i panni, è solo la parte centrale della cura, quella nella la quale si smaltisce gran parte dell'umidità: prima ci vuole un ingiallimento all'ombra; dopo, quando la lamina e la costola delle foglie sono completamente essiccati, deve seguire un arieggiamento in appositi ambienti coperti. Quest'ultimo, tra l'altro, serve a rinvigorire il colore sbiadito dagli abbaglianti raggi solari.
Il lato debole del metodo è proprio la fase centrale e caratterizzante, fase lunga da uno a più mesi nella quale l'astro non solo sparisce la notte ma di giorno potrebbe essere più o meno velato dalle nuvole: eventualità sulla quale chi ha a cuore le aromatiche foglie non ha alcun controllo e che ovviamente influisce sulla durata. Per questo, di norma, si cura al sole il tabacco coltivato in regioni assolate nelle quali la regolarità dei raggi non dia troppe sorprese, e il tutto si svolge nei mesi estivi. Spesso l'esposizione non è proprio all'aperto, o perlomeno non sempre: sistemate le foglie su appositi telai, questi vengono messi all'interno d'un locale in modo che siano raggiunti dai raggi che entrano da un finestrone, o invece sotto un portico orientato a Mezzogiorno; se li si tiene fuori di giorno, di notte si portano dentro. E' in Turchia, Bulgaria, Grecia e altri Paesi mediterranei che la tradizione è più radicata, ma anche certe regioni del Nordamerica e dell'Asia fanno la loro parte. I tabacchi di cui parliamo, detti "orientali", sono potentemente aromatici, poveri di zuccheri e di nicotina: ideali per un metodo la cui peculiarità è proprio quella di conservare al meglio gli aromi naturali. E del resto, visto che l'aroma è il loro punto di forza, il metodo ideale per curarli è quello legato ai raggi del sole. Rispetto alla mole complessiva del tabacco lavorato, quella "sun cured" è comunque una piccola parte.
Il secondo metodo è la cura ad aria; se ne ricava il tabacco air cured.
L'aria, che nel caso precedente ha un ruolo non secondario, qui diventa l'unica protagonista: tutto avviene al chiuso e l'azione diretta dei raggi rimane fuori dalla porta. Se, nella cura al Sole, l'astro è utilizzato solo nella parte centrale del processo, qui l'aria agisce dall'inizio alla fine: a parte una giornata scarsa di appassimento sul campo, le foglie, infilzate come aringhe, vengono subito sospese in una struttura nella quale resteranno tutto il tempo. Prima di infilzarle, assemblandole così in gruppi, vanno selezionate e raggruppate per affinità in modo che quelle della stessa filza abbiano il più possibile le stesse caratteristiche. Oppure, ordinatamente appese a mezz'aria, stanno le piante con le foglie ancora attaccate al fusto. Così sistemate, le foglie o le piante affronteranno nell'essiccatoio tutti gli stadi della cura a partire dall'ingiallimento. La luce, all'interno, è indiretta, l'aria deve sempre circolare perché ad essa è affidato gran parte del lavoro: asportare l'eccessiva umidità consentendo un'ulteriore evaporazione ed evitando l'insorgere di muffe; ma in certi casi vale il contrario, e la cosa che più preoccupa è un'eccessiva secchezza. Queste strutture sono lunghe, con pannelli di chiusura fissati a intelaiature portanti; quando è il caso vengono orientate secondo le direzioni abituali dei venti; molti dei pannelli sono incernierati così da poterli aprire; a volte sono apribili anche alcune parti del tetto. Manovrando le parti mobili il flusso dell'aria è incrementato o diminuito, nei luoghi dove si alternano un vento freddo e secco e uno caldo e umido le loro caratteristiche si possono sfruttare aprendo o chiudendo pannelli: si riesce così ad aumentare o diminuire temperatura e umidità. Questo negli essiccatoi classici, ma da tempo si fa largo uso di ventilatori.
Rispetto al metodo legato al Sole c'è senz'altro più possibilità di controllare i parametri ambientali; ma ci vogliono tanta attenzione e tanta esperienza e non sempre un semplice flusso d'aria naturale può bastare: se crolla la temperatura, l'unico rimedio è ricorrere a qualche forma di riscaldamento artificiale, e così si sconfina nel terzo o nel quarto metodo.
La cura ad aria comporta tempi lunghi di lavorazione: da quattro a otto settimane o anche più; comporta anche tanta manodopera ma è impagabile per ottenere uniformità di colore e per valorizzare, forse ancor più del metodo al Sole, gli aromi e i sapori naturali. Se il primo metodo è l'ideale quando un tabacco ha aroma molto pronunciato, il secondo dà i risultati migliori con tabacchi delicati e dolci, con poco zucchero ma alto tenore di nicotina. Tabacchi fini e molto apprezzati come il Burley o il Maryland, se pensiamo a quelli a foglia chiara; ma si lavorano ad aria anche tabacchi scuri usati per i sigari e i "French Blends". Data l'alta richiesta di varietà come il Burley, viene da sé che la cura ad aria è molto più utilizzata di quella al Sole.
Si diceva che, invece di quattro metodi, se ne potrebbero distinguere anche solo due: forse è un azzardo, ma forse no. Pensando ai primi esperimenti di cura al Sole, quelli in cui si esercitarono per millenni i nativi americani, sembra logico affermare che quel metodo fosse totalmente "naturale". Naturale, dunque anche piuttosto casuale e soggetto a diversi inconvenienti. Ovvio che gli Europei, una volta entrati nella logica del tabacco, cercassero di aumentare il controllo sulle modalità di cura organizzando meglio il metodo al Sole e sperimentandone altri a partire da quello ad aria e da pratiche di affumicatura e additivazione già note per alcuni generi di alimenti. Lungo i secoli la lavorazione del tabacco è passata così, attraverso lunghe evoluzioni e salti improvvisi, dalla perfetta naturalità a un'artificialità prima rozza poi sempre più sofisticata. Nonostante qualche sconfinamento nell'artificiale, i due metodi appena descritti potrebbero esser considerati "naturali". Gli altri due, quelli "artificiali", saranno il tema della prossima parte.