Primo Inglese a coltivare e curare il tabacco, John Rolfe ricavava un prodotto scuro e grossolano che oggi nessuno vorrebbe; ma allora lo apprezzavano in molti, quasi come quello spagnolo. Matoaka figlia di Powhatan gli aveva insegnato, e lui aveva perfezionato, una tecnica di cura sostanzialmente ad aria che però non si eseguiva in costruzioni chiuse a pannelli mobili: tutto avveniva sotto semplici tettoie. In altre parti d'America c'era chi per essicarle avvolgeva le foglie nelle felci, le metteva sotto strati di paglia, le affumicava o, anche solo parzialmente, le affidava ai raggi del Sole. Quello legato all'aria fu a lungo il metodo più seguito; ma in casi eccezionali, quando l'eccessiva umidità minacciava di rovinare tutto, non si esitava ad accendere surrogati del Sole sotto le foglie; a un certo punto, constatato che quei fuochi d'emergenza funzionavano, qualcuno pensò di farne l'elemento centrale di un diverso processo, imitando o reinventando quei metodi di affumicazione già familiari agli Indiani Muskogee.
Il terzo metodo è la cura a fuoco diretto; se ne ricava il tabacco fire cured.
Fuoco sì ma sotto controllo, attenuato, a ben vedere nemmeno così "diretto": far guizzare fiamme vive appendendovi sopra grandi quantità di foglie quasi secche non sembrava né sembra oggi idea geniale. Un modo per ottenere fuoco attenuato era ed è accendere grandi ceppi all'aperto e poi portare i tizzoni ardenti dentro la costruzione, che non è troppo diversa da quella per la cura ad aria; oppure utilizzare cortecce e legno sfatto o umido. Spesso la cura a fuoco diretto era ed è preceduta da un appassimento all'ombra e da una prima essicazione al sole. Le sedi dei fuochi sono fossati ricavati nel pavimento in terra battuta, coperti da pietre piatte (più o meno fino a fine Ottocento) e poi da lamiere metalliche; la scelta di appendere le foglie (opportunamente raggruppate) non proprio sopra ai fuochi sarebbe più prudente ma non è corretta: il tabacco dev'essere direttamente interessato dal flusso d'aria calda il quale, effettuato il suo lavoro, defluisce poi attraverso camini nelle pareti, finestre o sfoghi sul tetto. I fuochi non sempre sono accesi: al riscaldamento si susseguono pause di riposo; anche la loro intensità deve variare a seconda della fase: la maggior temperatura si raggiunge alla fine, quando si seccano le costolature delle foglie.
Alla descrizione davvero sommaria (le tante varianti furono e sono spesso autentici segreti del mestiere) del "fuoco diretto" è il caso di abbinare due osservazioni. La prima: per quanti sforzi si facessero il metodo comportava, e in parte comporta ancor oggi specie nelle sue ultime e più calde fasi, il pericolo d'incendio. La seconda: un fuoco di legna senza fiamma fa per forza poco o tanto fumo, e il fumo affumica le foglie; nei loro pori penetra facilmente il suo inconfondibile sentore con risultati che dipendono dal tabacco e dal combustibile. Oggi la cura a fuoco diretto è praticata solo per quelle varietà che ben si sposano all'effetto-fumo e si lega alla scelta accurata dei legni aromatici da impiegare; quando ai primi dell'Ottocento essa iniziò a prender decisamente campo, a imporla furono due diversi fattori: al crescente apprezzamento per l'aroma "affumicato" si univa la necessità, tutta moderna, di velocizzare e controllar meglio la lavorazione. Ma per alcune importanti varietà l'affumicatura restava un effetto indesiderato, e il problema di come evitarla mantenendo però la velocità e il controllo era all'ordine del giorno. Fu risolto attraverso alcuni passaggi, ma solo nelle ultime decadi del secolo una diversa metodologia si fece strada rallentando enormemente ma non arrestando la corsa del "fuoco diretto".
Questo processo di cura, comprese le eventuali fasi preliminari senza fuochi, ha durata assai variabile: da poche settimane ad alcuni mesi. Il tabacco che ne risulta ha tenore basso di zucchero, alto di nicotina; il fumo ostruisce i pori delle foglie impedendo ulteriori aromatizzazioni, ma per un prodotto così fortemente caratterizzato non è certo questo il problema. Oggi, in diverse parti del mondo dall'America all'Asia, sono curati in questo modo certi tabacchi forti ( Latakia e Kentucky i più noti) che si usano come condimento nei blend da pipa ma anche per sigarette, prodotti da fiutare e masticare, sigari di gran personalità.
Il tabacco richiedeva in passato tanta manodopera: negli Stati americani del Sud erano stuoli di schiavi neri a coltivarlo e lavorarlo; i primi erano stati quelli giunti a Jamestown nel 1619. Duecentoventi anni dopo, narra la leggenda, uno schiavo di nome Stephen Slade era al servizio di un coltivatore di tabacco della Contea di Caswell (North Carolina) il quale portava il suo stesso cognome; era anzi il padrone, Abisha Slade, ad aver imposto il cognome allo schiavo il quale aveva un doppio gravoso incarico: sovraintendere alla cura (a fuoco diretto) del tabacco di Abisha e fare il fabbro nell'adiacente fucina. Una notte del 1839 Stephen si sveglia di soprassalto: ha ceduto al sonno smettendo così di alimentare i fuochi. Questi si stanno esaurendo, tutta la cura è compromessa! In un drammatico tentativo di salvataggio Stephen corre alla fucina, afferra un bel pò di carbone di legna, come una furia torna all'edificio per la cura, butta i pezzi sui fuochi morenti, fa l'impossibile per ravvivarli!
I fuochi tornarono vivi, forse troppo: l'improvviso aumento di calore e la conseguente rapida disidratazione conferirono alle foglie un incredibile colore giallo! Cos'avrebbe detto il padrone? Ma Abisha Slade vendette molto bene quel tabacco: compensò lo schiavo e si mise insieme ai fratelli a studiare il come e il perché. Nel 1856 aveva finalmente in tasca la metodologia più corretta per ottenere sempre, con certezza e uniformità di risultati, il tabacco Bright Yellow partendo però solo da piante cresciute su terricci sabbiosi. Che ci volesse quel tipo di terreni lo si sapeva già; ma, prima della ricetta di Abisha, al colore giallo si arrivava solo ogni tanto e per puro caso.
Lo sforzo di approfondimento condotto dal coltivatore e dai fratelli non era isolato: s'inseriva nel clima di un'epoca in cui ricerca teorica, sperimentazione, sviluppo di invenzioni erano di gran moda e andavano a braccetto col sorgere dell'industria. Anche l'impiego del carbone di legna nella cura del tabacco, scoperto per caso dallo schiavo Stephen e dal suo padrone, era in realtà già noto e praticato dalla Virginia all'Ohio fin dagli inizi del secolo: poichè, bruciando, questo combustibile faceva poco o niente fumo, poteva esser ottimo nella cura a fuoco diretto di quei tabacchi che mal sopportavano l'affumicazione. Ma a partire dagli anni Venti ci fu chi tentò d'andar oltre, mettendo a punto qualcosa di più drastico: un inedito procedimento con tutti i vantaggi del fuoco che però eliminava (indipendentemente dal combustibile) le controindicazioni e i limiti del fumo.
Fin dagli anni Venti dell'Ottocento, infatti, alcune delle costruzioni adibite negli USA alla cura del tabacco, dette tobacco barns, cambiarono qualcosa nella loro struttura. Tolti i fuochi dal pavimento, questi furono trasferiti in caldaie all'esterno o in cantina. Dalla caldaia si dipartivano condotte di "tubi da stufa" nelle quali viaggiavano i fumi caldi prodotti dalla combustione: dentro ai tubi (flues), i fumi raggiungevano l'interno, si distribuivano in modo da riscaldare uniformemente tutte le foglie appese, trovavano poi una via di sfogo a lavoro compiuto. Nessun contatto dunque fra foglie e fumo; di conseguenza era possibile curare qualsiasi tipo di tabacco utilizzando qualsiasi tipo di combustibile. Ma i vantaggi non finivano qui: rispetto alla cura a fuoco diretto diminuivano (senza sparire del tutto) i pericoli d'incendio e il controllo della temperatura in tutte le fasi del processo era più facile e accurato.
Erano gli anni Venti dell'Ottocento, si diceva. Come mai la cura flue faticò tanto a imporsi? Da un lato c'era la resistenza di quanti avevano impiegato una vita a padroneggiare il fuoco diretto e non se la sentivano di cambiare, dall'altro il fatto che l'introduzione del carbone di legna aveva reso quel metodo ancor più interessante e di largo impiego. C'era poi che la conversione al flue richiedeva discreti investimenti. Ma soprattutto era difficile passare dal patrimonio di segreti tramandati di generazione in generazione ai cambiamenti anche drastici dettati dal progresso. Intanto però un numero sempre maggiore di coltivatori (prima) e di studiosi (poi) cercava di capire più a fondo i processi per poterne determinare le condizioni ottimali; decisivo in questo senso l'apporto, dagli anni dopo il 1870, del coltivatore Robert L. Ragland che individuò le diverse fasi della lavorazione e le relative specifiche in termini di temperatura e umidità. Man mano che questi concetti circolavano, e che il successo premiava chi si aggiornava, anche il cambio di mentalità accelerò. Ci si rese conto che per una cura efficace il controllo dei parametri era essenziale, e che da questo punto di vista il metodo a fuoco indiretto era senza paragoni. Dagli anni Settanta dell'Ottocento la sua diffusione divenne più rapida, ma nel 1919 solo un terzo degli impianti era riconvertito. Salito al 48% a metà anni Trenta del Novecento, toccò il 61% nel 1978. La grande industrializzazione del tabacco è strettamente legata alla cura flue e alle sue successive evoluzioni.
Il quarto metodo è dunque la cura a fuoco indiretto; se ne ricava il tabacco flue cured.
A differenziarla da quella a fuoco diretto sono quei tubi che separano le foglie dai fumi. I tempi di lavorazione sono nettamente inferiori, circa una settimana, e dal punto dei costi questo conta. La temperatura cui sono sottoposte le foglie, regolata da rigidi protocolli, cresce di fase in fase; in parallelo si tiene sotto costante controllo anche l'umidità agendo opportunamente sulla ventilazione. Cambiano a seconda dei casi alcuni passaggi e modalità di assortimento delle foglie, oltre alle pause di riposo fra una fase calda e l'altra; si tratta certamente del metodo più artificiale, quello che dà le maggiori possibilità di controllo. E' la cura classica utilizzata per il tabacco Bright Yellow, che iniziò con i fuochi diretti a carbone di legna ma al giorno d'oggi è universalmente denominato Flue cured. Non si pensi però che le sue peculiarità si limitino al colore, per quanto questo possa essere apprezzato. Di fatto il tipo di lavorazione, la particolare scelta di temperature e umidità in una precisa sequenza porta alla riduzione dell'amido contenuto nelle foglie con il conseguente aumento degli zuccheri e una relativa acidificazione che incide positivamente sulla qualità della fumata: si potenzia l'aroma e si eliminano certi aspetti acri del gusto. In quanto alla nicotina, questa viene in genere ridotta. Si aggiunga che, non intasati dal fumo, i pori delle foglie sono in grado di subire, se si sceglie di farlo, ogni genere di aromatizzazioni. Il prodotto della cura a fuoco indiretto è il classico tabacco da sigarette ma anche la base di quasi tutti i blend da pipa. Se vogliamo citare un nome, quel nome è Virginia.
Dagli anni Cinquanta del Novecento si è verificata una nuova svolta. Più che la nascita d'un nuovo metodo possiamo considerarla una logica evoluzione del quarto: dal flue al bulk curing. Con il procedere dei tempi diventava sempre più arduo sostenere produzioni crescenti di tabacco utilizzando la stessa quantità di manodopera per unità di prodotto. C'era bisogno di ripensare il processo per ottimizzarlo, fin dal modo in cui il tabacco era disposto durante il trattamento. Già negli anni Cinquanta del Novecento iniziarono le sperimentazioni, il primo impianto pilota è del 1958, dal 1960 è partita la commercializzazione, già negli anni Ottanta si era riconvertita negli USA la maggioranza dei produttori.
Il processo avviene in costruzioni metalliche molto più piccole delle tradizionali barns. In esse il tabacco è ammassato fittamente: la denominazione bulk ossia "massa"o "quantità", è legata proprio ai "mucchi" di foglie che riempiono rastrelliere modulari a loro volta stipate negli spazi interni. La ventilazione forzata spinge attraverso la massa del tabacco un flusso d'aria calda soggetto a ricircolo con un notevole risparmio energetico. Sensori di temperatura e umidità messi dappertutto aggiornano continuamente il computer che regola ogni cosa. L'immagine romantica della vecchia barn, dei suoi ambienti caldi e umidi popolati da tanti esperti operatori è ben lontana da quella più anonima del processo semiautomatico di oggi. Il quale si spinge al massimo quando le rastrelliere da inserire nell'impianto vengono riempite direttamente sul campo dalle stesse macchine che staccano le foglie. La cura dura circa una settimana, più o meno come prima; la qualità del tabacco risulta addirittura superiore; per i consumatori non è cambiato niente: anche in tempi di bulk si parla sempre di flue, di bright Yellow, di Virginia. Nato in America, il metodo a fuoco indiretto, prima flue e poi bulk, è ora utilizzato in tante parti del mondo; e intanto nel Paese d'origine le vecchie, dismesse tobacco barns diventano almeno in parte un patrimonio americano da preservare.
Esauriti i quattro principali metodi di cura possiamo ora riprendere il cammino da dove eravamo arrivati alla fine della seconda parte: il tabacco grezzo, pronto per i successivi, necessari trattamenti.