Il cielo non si è fatto attendere. Imprevedibile e mutevole come solo a Londra sa essere. Renzo non aveva dubbi che, anche quella mattina di luglio, si sarebbe fatto trovare pronto per farsi catturare dagli 11.000 pannelli di vetro che ricoprono i 72 piani della sua nuova creatura. The Shard il suo nome, non a caso, una scheggia di futuro lanciata nel cuore della capitale inglese, a un passo dal London Bridge. Ed è lì che l’architetto si sta dirigendo, per l’inaugurazione. Le strade di Londra gli sono particolarmente familiari, sono passati tanti anni da quando aveva aperto uno studio con Richard Rogers, ma se c’è una cosa che lui non ha mai smesso di fare, è quella di riservare un posto speciale ad ogni città che l’ha attraversato. La città è luogo di scambio di merci, di relazioni tra misure e spazi, ma soprattutto di intrecci di storie e di gente. La città è un continuo spunto di vita per Renzo, a partire dalla sua Genova, dalla quale si è dovuto staccare come ogni buon genovese. Ogni città che lo ha accolto ha lasciato impresso il suo marchio, Milano negli anni della contestazione studentesca è stata lo stimolo al fare, sia professionale che sociale. A Parigi viene in contatto con grandi maestri tra cui Jean Prouvè e vi tornerà per lasciare la sua impronta. Infine la swinging London che il TIME nel 1966 elegge metropoli del decennio e che proprio allora è stata teatro della sua grande opportunità. E mentre dal suo taxi rivede quelle strade che ormai quasi 50 anni fa, prima di diventare il grande Renzo Piano, lo vedevano dividersi tra l’insegnamento alla Architectural Association School e lo studio con l’amico Rogers, ha per un attimo davanti agli occhi una certa mattina d’inverno di fine anni ’60. Forse richiamata alla memoria da uno scorcio intravisto dal finestrino, o forse un ricordo archiviato insieme a quell’emozione che nonostante la fama lo percorre sempre quando presenta al mondo una sua nuova opera e che oggi, in occasione di “The Shard” è stato sollecitato.
Si rivede ragazzo, uscito presto di casa per andare a fare lezione. La barba folta che oltre ad inserirlo nello stereotipo dell’intellettuale di quegli anni, lo ripara dal freddo londinese, così come un maglione a collo alto. Dopo il suo dovere d’insegnante di fretta verso lo studio con l’autobus. Lo ha sempre preferito alla metro, a lui piace rimanere in superficie. Vuole vedere com’è fatta una città, la vuole consultare per trarne spunto, con i contorni dei suoi palazzi, delle sue strade, della sua gente. Quel giorno ha negli occhi un nuovo skyline, quello di un sogno. Arrivato da Rogers racconta che ha sentito di un concorso a Parigi, dove l’amico Jean Prouvè è presidente di giuria. Un concorso al quale non si può non partecipare. In fondo Parigi è la città perfetta da cui prendere ispirazione e nella quale innestare una nuova idea di spazio, come di quelle che nascono nella mente dei due giovani architetti quotidianamente.
È il 1969, Georges Pompidou, presidente della Repubblica francese da poco eletto, ha cominciato una politica di rinnovamento nazionale e internazionale che si distacca dal suo predecessore Charles De Gaulle. La vicinanza della moglie Claude, donna di profonda cultura, lo spinge a rinnovare anche dal punto di vista artistico. Viene infatti indetto un concorso per costruire un importante centro culturale multidisciplinare, il Beaubourg. È un concorso internazionale. Si presentano 49 paesi, vengono elaborati 680 progetti più 1, quello che attirerà l’attenzione della giuria, ma soprattutto del presidente Georges Pompidou.
Che un’idea così bizzarra fosse venuta nella mente di due irriverenti architetti non stupisce, ciò che stupisce, ricorda a distanza di tanti anni Renzo Piano, è che gliel’abbiano fatta realizzare. Infatti vince proprio la loro idea. Cinque piani di tubi, bocchettoni, scale mobili, vetri, ascensori, sale, putrelle, fontane, giardini, una specie di piazza verticale con un percorso segnato da un’esplosione di colori vivacissimi: verde, blu, giallo, grigio, rosso. Il risultato è un centro culturale che non vuole dare delle risposte, ma porre delle domande. E nasce con il Beaubourg anche il grande Renzo Piano.
Mentre il taxi si ferma perché ormai giunto a destinazione, Renzo sorride ripensando a quanto quella strana costruzione fosse odiata e amata dai parigini. Soprattutto ricordando la scena di quando una signora, in un giorno di pioggia all’esterno del centro, aveva avuto un piccolo contrattempo con l’ombrello e il vento. Lui e Rogers erano andati in suo soccorso e pensando di farsi belli ai suoi occhi si erano poi presentati dicendo di essere i due artefici di quell’opera. Lei per tutta risposta aveva chiuso l’ombrello e aveva cominciato a percuoterli insultandoli per lo scempio fatto nella sua Parigi. Punti di vista.
Renzo paga e dà uno sguardo all’orologio. C’è rimasto un po’ di tempo prima della conferenza stampa. Vuole che quei ricordi non sfuggano via troppo in fretta. Si concede quindi un po’ di tempo per sé. Si carica una delle sue pipe e si mette con calma a fumarsela in riva al Tamigi, dove la sua scheggia di vetro e di futuro ridisegna l’orizzonte della sua Londra. In fondo è proprio respirando quest’aria e vedendo questi cieli che scappano di continuo, che è partita l’idea per la sua consacrazione internazionale. Difficile ricordare le oltre 70 opere che ha firmato, da Postdamer Platz a Berlino alla Nuova Caledonia, dall’aeroporto di Osaka al museo Schiele di Berna, dal Porto antico di Genova alla nuova sede del sole24ore e a quella del New Nork Times, passando per tante altre città. Città reali sempre vicine alla sua città ideale. L’importante è viaggiare per lui, ascoltando i luoghi, la gente e la leggerezza, quella dei materiali e quella dello spirito. Una cosa ha imparato, che la trasparenza vince. Sempre. Trasparenza etica e creativa.
E mentre il fumo sale dalla pipa e va a confondersi con le nuvole all’orizzonte che vestono di luce “The Shard”, si dà una sistemata alla cravatta rossa e si incammina.