Foreste praterie e deserti, fiumi e laghi, colline monti e pianure: torme di animali selvatici, fieri uomini dalla pelle rossa. Fu questo, per i primi Europei, il Nordamerica. Ma c'era una fetta dell'immenso continente in cui gli Indiani evitavano di inoltrarsi: nulla avrebbero trovato per costruire canoe, armi, utensili, tepee oltre la fascia degli alberi, tra erbe muschi e licheni, nella desolazione della tundra; le loro relazioni con quegli Inuit e Yupik che si ostinavano a sopravvivere nelle lande ghiacciate erano fredde quanto le lande, improntate a reciproco disprezzo, pressoché inesistenti. Così Inuit e Yupic non ebbero le pipe dagli uomini rossi, anche se il fumo lo scoprirono ugualmente. A un certo punto del Seicento, nei territori occidentali dell'estremo Nord americano, apparvero pipe molto diverse da quelle indiane, con fornelli piccoli per poche boccate di tabacchi potenti; ma chi le aveva portate fino a lì? Escludendo gli uomini rossi, non rimanevano che i Ciukci: gente che con Inuit e Yupik s'intendeva benissimo vivendo di pesca e allevando renne nei freddi territori della penisola di Chukotka, proprio al di là dello stretto di Bering. Avevano pipe dal fornello altrettanto piccolo e, per commerciare con i vicini americani, attraversavano il tratto di mare sulla superficie gelata d'Inverno, con le canoe di pelle d'Estate. A loro volta i Ciukci avevano imparato il fumo dai Tungusi che cacciavano nelle foreste del bacino dell'Amur. I Tungusi l'avevano appreso dai Mongoli e dai Cinesi. I Cinesi dagli Europei. E gli Europei da chi, se non dagli Indiani d'America? A completare il cerchio aggiungiamo che gli Inuit del Nordest americano ebbero pipe dal fornello più grande portate loro da pescatori di balene e altri visitatori europei. Gli Indiani dello Yucon, invece, appresero il fumo proprio dagli Inuit: l'invasione degli Europei aveva indotto nuovi motivi di solidarietà fra quei due popoli così diversi, ma pur sempre nativi americani.
Passati i primi decenni del Seicento, comunque, tabacco e fumo erano ormai noti in quasi tutti gli angoli del globo. Come il fumo e la pipa s'erano sviluppati e diffusi in Europa toccando diverse fasi e seguendo determinate evoluzioni, così - più o meno negli stessi anni - il resto del mondo aveva vissuto qualcosa di simile, forse solo con qualche complicazione in più. Fuori d'Europa gli Europei avevano gettato il seme, i locali avevano fatto il resto in una serie di azioni concatenate che solo il crescente successo del tabacco poteva giustificare.
Di fatto, fin dai primi decenni del Cinquecento, tabacco e strumenti per fumarlo viaggiarono sulle navi assieme a quei marinai, commercianti e avventurieri che già li avevano scoperti e apprezzati in America o anche in qualche porto d'Europa ma non solo d'Europa. Lo strano spettacolo dell'uomo che fuma, capace di suscitare attenzione sospetto allarme e curiosità, è ragionevole pensare non si limitasse alle città di mare italiane, spagnole, francesi quando tutto il Mediterraneo, nonostante contrasti e sporadiche situazioni di guerra, aveva moli affollati di gente intenta a commerciare e qualche volta (si suppone) a fumare. Quando in qualcuno degli astanti sorgeva il desiderio di provarci, il campo si allargava.
Chiedersi se fu un Veneziano un Inglese o un Turco a fumare per primo il tabacco a Istanbul Tripoli o Famagosta non è poi così essenziale; ma furono certo i Portoghesi a portarlo per primi in mezzo mondo. Fin dagli anni Trenta del Quattrocento, sotto l'impulso di Enrico il Navigatore, s'erano lanciati lungo la costa occidentale dell'Africa oltre le terre allora conosciute, spingendosi ogni volta più a Sud. Nel 1492 erano già arrivati oltre Capo di Buona Speranza, al volgere del secolo avevano toccato l'India e incidentalmente scoperto il Brasile. Nel 1512 stipulavano trattati per le spezie delle Molucche, nel 1543 toccavano la costa del Giappone, dal 1557 ebbero una solida base commerciale sull'isola di Macao, nel 1571 ne ottennero una anche a Nagasaki. Per la cronaca: i reduci da Roanoke attraccarono a Portsmouth solo nel 1586. Intanto i Portoghesi, saldamente insediati nelle isole di Capo Verde, le utilizzavano come centro di smistamento degli schiavi diretti in America. Si sa che dai primi decenni del Cinquecento, nelle loro tante basi d'appoggio lungo la rotta per l'India, il tabacco era presente; né mancava sulle loro navi. Anche nei porti che queste toccavano è probabile si innescasse fra la popolazione la classica catena di curiosità, emulazione, soddisfazione, diffusione del fumo; ma, proprio come in Europa, si trattò comunque di fatti isolati o perlomeno circoscritti. Come in Europa, l'affermarsi del nuovo costume richiedeva molto tempo e le circostanze adatte; ma forse, in Africa, non andò esattamente così.
Attività abietta ma remunerativa, il commercio degli schiavi era condotto da Portoghesi che facevano da tramite fra i procacciatori di merce umana e le navi che arrivavano con le stive pronte al carico. Vittime della situazione, e della caccia, erano le tante tribù dell'interno. Parte degli schiavi restava in Africa: presso gli abitanti della costa, i procacciatori, e presso gli stessi Portoghesi che li impiegavano sul posto in diverse faticose attività. Di tabacco, fra queste persone, ne circolava fin dal primo Cinquecento; ma ancor più ne circolò man mano che aumentavano i carichi provenienti dalle piantagioni in Brasile. Fumavano i Portoghesi, fumavano i cacciatori di uomini spesso remunerati proprio in tabacco, fumavano gli stessi schiavi i quali a volte scappavano o riacquistavano comunque la libertà e, tornando a casa, vi portavano quella piacevole abitudine... In una terra - l'Africa -peraltro già abituata a "fumare" altre sostanze, non fu difficile per l'aromatica pianta diffondersi forse prima che in Europa; ma anche lì la sua vera affermazione doveva attendere, come in ogni altra parte del mondo, i primi decenni del Seicento.
Perché così tardi? Come un simpatico virus, l'uso del tabacco richiedeva un lungo periodo d'incubazione. Tentando e ritentando, i primi "curiosi" che via via lo adottavano maturarono competenze, tecniche, rituali tali da render plausibile e "normale" agli occhi dei meno coraggiosi quella loro attività. Era solo il primo passo per vincere la diffidenza che hanno i più, in ogni luogo ed epoca, verso il nuovo: specie quando questo "nuovo" proviene da una cultura molto diversa. Se, per gli Inglesi, i diversi furono i "selvaggi" del nuovo mondo, portatori di "trasgressioni e libertà sfrenate", per i sudditi della Sublime Porta, del Sultano, dello Shah, del Maharaja, del Celeste Impero, dello Shogun, i diversi furono quei "barbari" che, provenendo dall'Europa, minacciavano di contaminare il loro mondo. Per gli islamici: gli "aal el ketap", gente del Libro; per i Giapponesi: i "namban", barbari del Sud. Per il tabacco, l'unico modo per farsi aprire le porte da civiltà antiche, strutturate, fiere del loro modo di stare al mondo, era la diffusione lenta in ambiti ristretti come i porti dove la solidarietà fra commercianti e naviganti annullava le distanze; o fra quelle persone altolocate con le quali gli stessi commercianti entravano in contatto per trattare un accordo, un permesso, un'esclusiva. L'introduzione del fumo in ambienti elitari, come del resto si verificò anche in Inghilterra, era l'arma migliore per "sdoganare" il tabacco legittimandone l'uso e rendendolo socialmente appetibile. L'assimilazione della novità passava anche attraverso dibattiti pubblici fra saggi, esperti, autorevoli personaggi; dispute anche accese capaci peraltro di attirare l'attenzione sull'oggetto del contendere suscitando ancor più la curiosità e la voglia di non restarne esclusi. Ma soprattutto, per diffondere il tabacco, c'era bisogno di un elemento essenziale: il tabacco. A livello locale doveva crearsi dal nulla una rete di commercianti che fornissero la magnifica erba e gli strumenti per fumarla; a monte, anche sul luogo, andavano incrementate le piantagioni e le manifatture così da poter fornire quantitativi sempre più importanti; ma il crescere della merce offerta avrebbe a sua volta richiesto un'ulteriore espansione del mercato a cura di operatori locali che, partendo dalle basi commerciali, si spingessero sempre più lontano. Una reazione a catena insomma. Che, nelle sue prime fasi, non poteva che esser lenta e sotto traccia...
Passando dal Pacifico, gli Spagnoli s'erano insediati attorno al 1570 in un arcipelago d'Oriente che, in onore del re Filippo II, chiamarono Filippine. Dieci anni dopo, approfittando della crisi di successione in Portogallo, lo stesso Filippo II invase quel Paese unificandolo alla Spagna. Fatti che sconvolsero tutto. Il gigantesco apparato messo su dai Portoghesi per stabilire e mantenere il monopolio sulla rotta per l'India risultò indebolito. Quegli sterminati territori d'espansione divennero obiettivo di Olandesi, Inglesi, Spagnoli e altri. La prima nave olandese doppiò il Capo di Buona Speranza nel 1595, la potentissima Compagnia Olandese delle Indie Orientali venne costituita nel 1602; del 1600 è la omologa Compagnia inglese. Da una situazione sostanzialmente equilibrata si passò in un paio di decenni a un'accelerazione bruciante. Europei scatenati e in concorrenza fra loro battevano tutte le rotte, neppure il Mediterraneo era trascurato. Fu allora che il tabacco uscì dalla fase latente in Europa, Asia e Africa. In America c'era già da tempo, l'Australia era ancora da scoprire.
Che il Seicento segni una svolta risulta da tanti segnali provenienti dalle più svariate fonti: nel 1595 i Portoghesi partendo da Macao portano carichi di tabacco in India; a Giava nel 1600; in Giappone nel 1605. Negli stessi anni la coltivazione del tabacco è segnalata in India, a Giava, nelle Filippine, in Giappone, Cina, Africa Orientale. Di tabacco e pipe si parla in Cina, Giappone, Persia, India... Nel 1601 c'è tabacco nell'Impero Ottomano dove probabilmente l'hanno portato gli Inglesi, in Persia sempre gli Inglesi ma pure i Portoghesi o forse gli Arabi passando dal Golfo Persico. Sempre in quegli anni è acclarata la passione degli Africani per il tabacco; ma anche dei Cinesi, degli Indiani, dei Giapponesi i quali a loro volta portano il tabacco in Corea... In Cina, probabilmente, il primo tabacco non arriva né coi Portoghesi né con gli Spagnoli, ma coi Cinesi. Da secoli gli intrepidi marinai del Fujian tengono regolari contatti con le Filippine, specie con l'isola di Luzon; quando vi trovano gli Spagnoli, non ci mettono molto ad acquistare e a portarsi a casa un bel po' di tabacco, foglie e semi. I Cinesi contribuiscono anche a diffondere il prodotto lungo la costa a bordo delle giunche, o con le carovane verso Mongolia, Turkestan, Tibet, Siberia... E qui meglio fermarci: inutile oltre che impossibile rintracciare tutti i percorsi d'una intricata, clamorosa, pacifica invasione. Ma un'ultima data è bene non tralasciarla, tanto per tenere insieme i fatti: era l'anno 1614 quando, a Londra, arrivò il primo carico di tabacco dalla Virginia.
Il tabacco, dunque, aveva vinto. In Africa la sua cultura si estese a occasioni sociali come i matrimoni e ai riti religiosi; in Giappone fu parte integrante della cerimonia del té; in Turchia si affermò tanto da dare origine a un noto stereotipo sui Turchi. Erba seduttiva, capace di scavalcare e travolgere le differenze sociali, conquistò tutti; o quasi tutti. Destò anche allarme, subì divieti drastici perché sembrò potesse prender la mano e travolgere l'ordine costituito; ma nulla, alla lunga, valse a frenarne la corsa.
In poco tempo quelle stesse culture che l'avevano a lungo tenuto fuori dovettero correggere il tiro incorporando il tabacco, rendendolo funzionale alle tradizioni, ai rituali del luogo. I quali, a ben vedere, con lo spazio che già davano all'uso medicinale delle erbe o addirittura al fumo di svariate sostanze, sembravano addirittura predisposti all'arrivo della magica pianta.
Anche gli strumenti per fumarla subirono lo stesso processo di "incorporazione": adattati al gusto, ai materiali, alle tradizioni e tecnologie dei diversi contesti, ne uscirono talmente trasformati da risultare quasi irriconoscibili agli occhi degli Europei.