Uno sbadiglio da infilarci dentro una montagna, un’aggiustata alla posizione sotto al tavolo da lavoro e Nico è pronto per proseguire la sua giornata tra il rumore ritmico della carta vetro sulla radica, il silenzio di Kurt e le note familiari di The dark side of the moon. Il disco è quasi alla fine, persino lui lo riconosce ormai. Sta suonando Eclipse. Ogni volta che arrivano i battiti cardiaci seguiti dalla voce che dice “There is no dark side in the moon, really. Matter of fact it’s all dark. The only thing that makes it look light is the sun”, ha un sussulto. È come se quei versi parlassero dell’uomo che da anni segue fedele ovunque. Ci sono cose che un animale capisce meglio di altri. I cani si sintonizzano sulla vera essenza del proprio padrone e lo vivono da dentro, senza parlarci. E così è per Nico. Kurt è un libro aperto.
Quando è uscito quel disco dei Pink Floyd Kurt era solo un ragazzo di poco più di vent’anni. Niente università, nonostante un debole tentativo durato un paio d’anni, ma una continua ricerca di mediazione fra quella zona di sé illuminata dal sole e quella invece completamente al buio, com’è normale che sia a quell’età. Stare da solo nel suo laboratorio gli piace molto. Lavorare da solo gli piace ancora di più e non a caso ha scelto di fare il pipemaker. A volte sfiora col piede il suo labrador o abbassa una mano e lo accarezza sulla schiena. Quel contatto lo rimette a posto col mondo. Dentro e fuori.
Avrebbe voluto fare l’archeologo. La storia che si legge tra le pieghe di un oggetto, di una costruzione, di una città sepolta è quanto di più intrigante ci sia per Kurt. Fin da bambino. Tracce più o meno consapevoli lasciate dall’umanità attraverso le quali ricostruire un percorso, un presente, delle vite. Solo immaginando. Facendo supposizioni. Avanzando ipotesi. In fondo è lo stesso fascino che si nasconde dietro al poker. Le carte che ti sono capitate per destino le conosci solo tu nel momento in cui le disponi a ventaglio fra le dita. Gli altri si limitano a ricostruirle mentalmente in base alle tue mosse, alle tue scelte, ai tuoi bluff. E solo alla fine sarà possibile per tutti sapere com’è andata davvero. È proprio qui, al tavolo da gioco, che Kurt si sente più vicino alla sua vera essenza. Nella solitudine della decisione di cosa scartare e cosa tenere. Nell’azzardo delle varie maschere che di volta in volta deve indossare per sviare gli avversari. A Kurt piace lavorare da solo perché è in quei momenti di pace tra sé e sé che cerca nuovi modi per fare uscire allo scoperto il suo vero carattere. Qualche volta scambia due parole con Nico che da sotto il tavolo lo veglia mentre crea le sue pipe. Quando il disco arriva ad Eclipse comunque il sussulto è anche suo
Sono passati davvero tanti anni ormai da quando nel 1983, a 33 anni, un’età importante per un uomo, passando davanti al negozio di Kai Nielsen decise che fare il pipemaker forse era la sua strada. Quando lo disse a casa fu soprattutto il padre a incoraggiarlo. Quando ci ripensa Kurt ancora gli viene da ridere: “così starà fuori dai guai” disse. Qualunque cosa sarebbe andata bene per i suoi purché fosse stata in grado di trasformare la sua grande energia in qualcosa di costruttivo. E lavorare con la radica poteva essere una soluzione. Non se lo fece dire due volte Kurt. Modellare la materia per farne uscire qualcosa di utile in fondo era lo stesso tipo di lavoro che cercava di fare da sempre sul suo universo interiore. Togliere, aggiustare, levigare. L’apprendistato di artigiano arrivò insieme a quello di adulto, un percorso che da allora prosegue senza sosta. Non si smette mai di imparare, sostiene Kurt. Le prime pipe le ha vendute nei pub e nei bar, per pochi soldi. Avere come risposta un riconoscimento in denaro alla sua arte è stato un grande stimolo ad andare avanti. Non solo perché non c’è lavoro se non c’è retribuzione e fare il pipemaker è un lavoro, ma anche perché secondo lui è nel momento in cui la pipa entra nella mani di chi la fumerà che comincia a vivere. Quando esce dal laboratorio di chi l’ha realizzata inizia la sua vera storia.
Kurt da oltre trent’anni plasma la radica oltre a se stesso, trasformando dei pezzi di legno in una traccia personale da lasciare al mondo. Una traccia che racchiude parte del suo carattere, della sua storia e di quella dell’umanità intera con le sue forme classiche, le sue sperimentazioni e rivisitazioni. Quando mette il suo marchio sulle pipe, un triangolo d’oro dagli angoli tagliati, gli viene sempre in mente il prisma della copertina del disco dei Pink Floyd. E smussare gli angoli del prisma che filtra la luce della sua personalità è diventata ormai una sfida quotidiana.
Un ringraziamento particolare a Kurt Balleby Hansen per il contributo dato alla realizzazione di questo articolo
Milano, ottobre 2014