Nella Londra del 1573 già c'erano pipe d'argilla. Poco si sa di quelle portate nel 1586 dai reduci-fumatori della Colonia Virginia. Cronache di fine Cinquecento riferiscono degli elegantoni elisabettiani e delle loro pipe dal bocchino lungo: tutte d'argento, oppure d'argilla ornata di metalli preziosi. Le persone più umili, per fumare, assemblavano un guscio di noce e una cannuccia di paglia. E' sempre difficile ricostruire le origini: le fonti sono scarse e si rischia di semplificare. Ma in questo caso, di lì a poco, la semplificazione fu nei fatti: grazie a un rapido passaggio all'industrializzazione la pipa d'argilla spiccò il volo restando a lungo, in Europa, pressoché senza rivali. Ben presto si differenziarono i modelli semplici "per tutti" da quelli di lusso; ma la materia prima, le tecnologie di base erano quelle, o quasi. Un materiale particolarmente adatto alla fumata ottenuto da processi sempre più evoluti di raffinazione, un disegno funzionale e insieme gradevole per oggetti realizzati in serie a prezzi ragionevoli fecero sì che i poveri accantonassero le rozze pipe autocostruite e i ricchi lasciassero perdere (quasi sempre) i tipi in nobili metalli che sprizzavano lusso ma non davano le stesse soddisfazioni fumatorie dell'argilla.
Nemmeno per l'Estremo Oriente è facile ricostruire le origini delle pipe. E' abbastanza chiaro il modo in cui il tabacco gradualmente si diffuse e s'impose; ma quali furono all'inizio gli strumenti per fumarlo? I Portoghesi, primi Europei a solcare quei mari, erano, come gli Spagnoli, più che altro estimatori e consumatori di sigari; sicuramente conoscevano le pipe usate dai marinai inglesi ma l'esempio loro più familiare erano quelle, molto semplici, che si erano diffuse in Brasile: una noce cava assemblata a un pezzo di canna. Oggetti, insomma, non così dissimili da altri rozzi arnesi in uso a Londra in quegli stessi anni. Come fossero le prime pipe cinesi si può vagamente arguire da quanto si legge in una cronaca locale: le foglie del tabacco erano bruciate e il fumo assunto tramite un "lungo tubo tenuto fra le labbra". Insomma, un po' poco; ma basta uno sguardo distratto alle pipe tradizionali della vasta area fra Cina Giappone e Corea per immaginare che per il lungo tubo si usasse un materiale di casa in quei luoghi: il bambù. Un trattato cinese di fine Settecento conferma essere questo l'ideale per i tubi da pipa mentre ebano e avorio, col calore, tendevano a fessurarsi. E' opinione abbastanza comune che le prime pipe orientali siano state interamente di bambù; in seguito la nobile canna costituì, molto spesso, una parte basilare dello strumento.
Sembra che effettivamente le prime pipe giapponesi fossero molto semplici e tutte in bambù, ma quasi subito apparvero i kiseru: strumenti da fumo composti di tre pezzi. Quello centrale è un tubo di raccordo dritto e lungo, di norma in bambù o altro tipo di legno; alle sue estremità sono montati la testa e il bocchino entrambi in metallo. Oggetti eleganti, spesso lussuosi, che rispetto alle monoblocco europee in argilla del Seicento appaiono superiori per robustezza e preziosità artigianale. In quanto a fumabilità il discorso è diverso, e lo vedremo, ma va prima detto che i kiseru potevano permetterseli solo gli strati più alti della società oltre che i mercanti i quali, pur situati in basso nella scala gerarchica, avevano un'invidiabile capacità di spesa. La restante popolazione andò avanti per secoli con pipe tutto bambù così semplici e rozze da gettarle via non appena si deterioravano: per questo, parlando di pipe giapponesi, vengono in mente solo quelle "di lusso" e si trascurano le altre. In Europa, invece, nella maggior parte dei casi, un tipo di pipe funzionale e industrialmente prodotto - quelle d'argilla - era disponibile a tutti, pur con ovvie differenze di qualità. Volendo accostarle ai kiseru si nota una gran differenza morfologica accentuata dalle diverse sensibilità estetiche dei due mondi; ma è un paragone improprio: sarebbe più corretto confrontare le splendide giapponesi con le rare europee in metalli preziosi.
Tornando al kiseru, il maggior problema visto dal fumatore di oggi è che bruciare tabacco nel metallo non è esattamente il massimo; ma come fumavano questi Giapponesi? Usavano un tipo di "combustibile" estremamente sminuzzato che lavoravano con due dita fino a ricavare una pallina da inserire nel minuscolo fornello a forma di ghianda: poi accendevano con le braci e, in una o due boccate, la fumata era già conclusa. Se questa non bastava ripulivano, formavano un'altra pallina e ricominciavano da capo. Fumare è un rito anche con le pipe di oggi; con il kiseru lo era di più. Forse proprio lo scarso volume del tabacco e il suo continuo rinnovo evitavano che il gusto di metallo rovinasse la fumata, che il fornello si surriscaldasse, che si creassero sgradevoli condense; o forse al palato di quei fumatori un leggero gusto di metallo non dava disturbo.
Al di là degli aspetti pratici, lo strumento kiseru si rivela un oggetto raffinatissimo; di una raffinatezza alla quale gli utilizzatori tenevano molto. Bocchino e testa potevano essere in rame, argento, oro, peltro e altre leghe, o ancora acciaio damaschinato come quello delle lame e delle guardie delle spade. Non è questo un accostamento peregrino, se è vero che spesso era lo stesso artigiano a creare gli uni e gli altri oggetti. Bocchino, testa, tubo di raccordo a volte anch'esso di metallo, presi singolarmente e nel loro complesso, davano agli artefici l'occasione di sbizzarrirsi in tutte le possibili tecniche decorative. Il classico kiseru è leggero e snello, lungo dai 15 ai 20 centimetri; altre volte, pur nella ricchezza delle finiture, è più grande e massiccio con elementi spigolosi che potrebbero far pensare a qualche cattiva intenzione: e di fatto si trattava di armi improprie, dotate di una certa efficacia. Queste pipe da lite (kenka-kiseru), veri arnesi da fumo ma con un secondo possibile impiego, stavano alla cintura di persone alle quali le rigide regole vigenti vietavano il possesso di armi, ma che volevano comunque esser pronte a difendersi e a offendere.
Se passiamo alla Cina troviamo le stesse pipe totalmente di bambù per i meno abbienti. Per i più fortunati, arnesi in tre pezzi come i kiseru ma più grandi e con fornelli più capienti: pressapoco di capacità doppia, la quale rimane comunque scarsa rispetto ai modelli europei. Ma la fumata a più riprese imperava anche in Cina. Le teste sono anche qui in diversi tipi di metallo, comune è una lega di rame zinco nickel e ferro usata anche in Giappone e chiamata "rame bianco"; ma non mancano quelle in legno. I bocchini sono spesso in pietre, avorio, giada traslucida. Ci sono pipe interamente d'avorio; in questo caso l'inserimento di un tubetto di rame nell'elemento di raccordo compensava la tendenza del materiale a fessurarsi. Questo per quanto concerne le pipe "a secco", ma parlando di Cina sono d'obbligo perlomeno una citazione per le pipe da oppio e un accenno a quelle ad acqua: strumenti più antichi del tabacco il cui uso interessa vaste parti dell'Asia e dell'Africa.
Prendiamo un recipiente chiuso riempito solo parzialmente d'acqua, con due fori nei quali sono inseriti due piccoli tubi. Il primo ha un'estremità immersa nell'acqua e l'altra collegata a un fornello esterno al recipiente. Il secondo ha un'estremità sempre all'interno ma sopra al livello dell'acqua e l'altra collegata a un bocchino esterno. Ora accendiamo il tabacco nel fornello aspirando col bocchino: aspirando, nel recipiente la pressione dell'aria diminuirà rispetto a quella atmosferica e, per riequilibrarla, attraverso il tubetto che parte dal fornello acceso arriverà aria esterna spinta dalla stessa pressione atmosferica. Quest'aria, satura di fumo, raggiungerà l'acqua e la risalirà gorgogliando. Attraverso l'altro tubetto e il bocchino, il fumo ci arriverà in bocca. In termini molto semplificati: ecco "inventata" la pipa ad acqua, detta a seconda del luogo narghilé, hookah, arghila, qalyan, shisha e altro ancora. Un oggetto che, con ogni probabilità, è ben più antico dell'arrivo del tabacco dall'America. Dove sia stata usata la prima volta non è chiaro: forse in Sud Africa, forse in Etiopia, in Persia, in India. Servì all'inizio per fumare altre erbe, ebbe parecchi perfezionamenti specie dall'introduzione del tabacco in poi; assunse e assume diverse forme a seconda dei luoghi.
Quella cinese fra Sette e Ottocento è particolarmente interessante: mai viste pipe ad acqua così minuscole e facilmente trasportabili. Oggetti "tutto metallo" belli anche da guardare per l'ingegnosità e l'accuratezza dell'esecuzione, per la preziosità di tante finiture. In non pochi esemplari il disegno dei principali elementi richiama la canna di bambù. Se dalla Cina ci spostiamo in India, Arabia, Persia, Egitto troviamo, dal Seicento in poi, la massiccia presenza di questo genere di pipe. Una delle possibili ragioni sta nel fatto che, passando dai diversi tubi e gorgogliando nell'acqua (in tanti modi aromatizzata) il fumo si raffredda; e in quei climi la cosa non può che essere gradita. Ma fuori dalla Cina non si tratta più di oggetti facilmente trasportabili: più o meno ingombranti, sono concepiti per l'uso in casa o spesso anche nei caratteristici locali pubblici dove, insieme al fumo, si poteva gustare il caffè. In questo caso la pipa ad acqua diventava (e diventa) strumento sociale, offrendo la possibilità di aspirare contemporaneamente a più fumatori, ognuno col suo personale bocchino. Le pipe ad acqua si differenziano a seconda dell'epoca, del luogo, dell'essere d'uso pubblico o privato; passando da oggetti semplicemente gradevoli fino ad esemplari unici e preziosi attraverso una ricca e diversificata gamma di qualità. Anche per chi non fuma sono e restano uno dei simboli più immediati dell'Oriente; ma accanto ad esse hanno sempre trovato posto e ruolo anche le pipe che ci sono più familiari: quelle "a secco".
Pipe che, passando dall'India alla Persia, dalla Persia alle coste del Mediterraneo, risentono in qualche modo della maggior vicinanza dell'Europa, ma non troppo. E insieme perdono le caratteristiche peculiari di Cina e Giappone, ma non completamente. La pipa più nota e affermata nella vasta area dell'antico Impero Ottomano, diffusa però (in tante varianti) in un'area ben più vasta, è il chibouk. Come il giapponese kiseru si compone di tre elementi: la testa, il bocchino e (a collegare l'una all'altro) il lungo tubo di raccordo. Queste le somiglianze, più numerose le differenze. Il fornello ha una capienza ben maggiore, e nella gran parte dei casi non è di metallo ma, come in Europa, d'argilla. Forse i primi esemplari prodotti a inizio Seicento sulla scorta dei modelli d'importazione erano bianchi o grigi; ma il classico chibouk arrivato fino ad oggi ha (quasi dalle origini) un colore bruno rossastro aranciato nelle tante sfumature della classica terracotta. Le forme e le fantasie decorative sono pressoché infinite con l'intervento di argille di altri colori o altri materiali. Il bocchino, spesso la parte più costosa, è d'ambra impeccabilmente lavorata. Per il tubo di raccordo s'impiegavano legni particolari quali il gelsomino, la marasca, il bois de rose. Le piante erano coltivate così da ottenere rami diritti e senza difetti; con lavorazioni accuratissime si ottenevano gli elementi che poi si univano fino a raggiungere la lunghezza voluta: un metro e mezzo, due, a volte anche tre. I chibouk comuni erano piuttosto semplici e relativamente corti; quelli di lusso potevano essere (oltre che lunghi) anche molto elaborati, con l'aggiunta di elementi preziosi e raffinate decorazioni. Alcuni erano avvolti da tessuti raffinati che, prima dell'uso, andavano inumiditi: un modo intelligente per rendere il fumo ancor meno caldo. Ma questo sforzo di raffreddare il fumo si nota un po' in tutte le pipe prodotte nel continente asiatico; e non solo in quello: i lunghi tubi e il passaggio nell'acqua andavano (e vanno) in quella direzione.
Se dalle coste africane del Mediterraneo ci si spinge più a Sud oltre le dune del Sahara, si incontrano inestricabili foreste di pipe dalla testa di legno, sterminate savane di pipe dalla testa d'argilla e, qua e là, pipe in metallo. Un continente così frammentato in gruppi tribali relativamente autonomi, dove il fumo di altre erbe aveva già dato origine ad alcuni generi di pipe prima dell'arrivo del tabacco, dove fino all'Ottocento l'influenza degli europei era relativa e limitata a pochi territori, la creatività umana ebbe modo di scatenarsi in mille modi attraverso forme, dimensioni, materiali. Le pipe africane tradizionali sono le più eterogenee: un caleidoscopio di combinazioni e simbologie che va spesso oltre la funzione di questi oggetti.
E l'America? Di lì veniva quella stessa idea di pipa che aveva invaso il mondo. Ora le pipe riscoperte e rielaborate in Europa invadevano l'America: indirettamente, attraverso l'Asia, all'estremo Nord; direttamente nel restante subcontinente nordamericano, prima importate e poi prodotte sul posto da una miriade di manifatture. I nativi, ovviamente, proseguirono a lungo con le loro lunghe pipe tradizionali il cui fornello era spesso della verde pietra detta Catlinite; ma un particolare genere di pipe a doppio uso (le pipe tomahawk) fu fabbricato da europei per venderlo agli Indiani. Ed è interessante anche se azzardato confrontare questi strumenti destinati al fumo e al combattimento (perlomeno simbolico) con quei kenka-kiseru che in Giappone pendevano dalle cinture di alcune persone. In Centro-Sud America il panorama era variegato, passando da territori nei quali non si fumava affatto alle vaste zone dedite al fumo da sigaro, a tipologie molto varie di pipe: da quella e fatta di una noce e un pezzo di canna fino a quelle con la testa in pietra, in legno, in argilla.
Un giro del mondo delle pipe poteva essere estremamente vario nel Sei-Settecento. Dal secolo successivo le vicende geo-politiche, l'incremento delle comunicazioni e dei traffici portarono a una progressiva omologazione la quale, col Novecento, si fece massiccia. Il modello quasi universale diventò allora quello delle pipe europee. O meglio: quello di alcune famiglie di pipe che in Europa, scaturite da un secolare processo di selezione e affinamento di forme e materiali, si erano imposte su tutte le altre.
Le pipe fotografate in questo articolo fanno parte della Collezione Al Pascià
Vi segnaliamo un libro ben illustrato sulla storia e fabbricazione delle pipe da oppio e relativi accessori: Armero & Rapaport, The Arts of an Addiction. Qing Dynasty Opium Pipes and Accessories (2005), una edizione limitata (500 copie) acquistabile da Ben Rapaport (ben70gray@gmail.com).